Avete presente quando il più piccolo dei bambini di una classe diventa vittima delle prese in giro dei bulletti, si arrabbia e va a chiamare il cugino grande? Ecco, è esattamente così che nacque il Dream Team quando, negli Stati Uniti, nel 1988, i collegiali che rappresentavano il Paese nel torneo di basket vennero sconfitti nella finale Olimpica di Seul dall’Unione Sovietica. Certo era già successo, nel 1972, ma allora le polemiche sulla triplice ripetizione dei 3 secondi finali diedero una consolante giustificazione alla sconfitta. Stavolta no, era netta ed inappellabile, tornare in America senza l’oro del basket bruciava terribilmente.

Bruciava talmente tanto che si arrivò a pensare ad un qualcosa fino ad allora impensabile: portare alla successiva edizione dei Giochi una selezione di professionisti della NBA, i giganti del gioco, gli imbattibili fuoriclasse mondiali della pallacanestro. Se fino ad allora era stato inutile anche solo pensare di disturbarli, oltre a non essere permesso dalle regole Olimpiche, stavolta diventava quasi necessario. L’idea era già di per sè rivoluzionaria e dalle immense prospettive mediatiche, ma nessuno in fondo pensava che potessero essere coinvolte le stelle NBA di prima grandezza.

Bastò poco perché la fiammella diventasse un incendio di immani proporzioni, perché la rinuncia alle vacanze estive da parte di professionisti strapagati passasse dallo status di fastidio da evitare a quello di evento a cui partecipare assolutamente. Bastò convincere Magic Johnson. Magic, con la sua innata vocazione ad ergersi a leader e ad essere protagonista, vide immediatamente nelle prime Olimpiadi aperte ai professionisti l’occasione per esaltare la sua verve. In quella fase, dopo la aver passato una complicatissima crisi negli anni ’70, la NBA era nel pieno di una fase di rilancio legata indissolubilmente alla figura di Magic ed a quella di Larry Bird. L’adesione entusiasta di Johnson, e la successiva di Larry, scatenarono tra i giocatori NBA una voglia matta di far parte del nascente team Olimpico.

Ma se Magic e Larry erano quelli che avevano salvato la NBA nel decennio precedente, c’era uno che stava promettendo di dominarla per il decennio a venire. E quella promessa l’avrebbe mantenuta. Michael Jordan aveva appena vinto il suo primo anello, avrebbe vinto il secondo prima delle Olimpiadi ed era ormai lanciato verso il punto più alto della gerarchia NBA, con buona (malcelata) pace di Magic. MJ doveva quindi esserci assolutamente. Ma come si sa tutte le rose hanno le loro spine e tutte le stelle le loro pretese, la pretesa di Micheal fu semplicemente una: o io o Isiah Thomas.

Isiah Thomas era il capitano di una squadra fisica e rognosa, che non nascondeva la sua passione per il gioco duro e sempre sul confine e che aveva vinto l’anello per due volte di fila prima dell’inizio dell’era di Sua Ariosità. Non a caso i suoi Detroit Pistons erano noti come Bad Boys. L’esclusione di Isiah dal roster del futuro Dream Team fece parlare gli Americani per diversi mesi senza trovare una risposta plausibile, come si poteva tenere fuori il miglior playmaker della Lega (dopo Magic ovviamente)? Si poteva, ovviamente, solo perchè MJ aveva deciso così. E tanto bastava.

Ma se Isiah rimase fuori furono in 9, oltre la triade Magic, Larry, MJ, ad entrare nel roster pronti a passare alla storia come la più grande squadra di sempre di tutti gli sport: Charles Barkley, Karl Malone, John Stockton, Chris Mullin, Patrick Ewing, David Robinson, Scottie Pippen, Clayde Drexler ed il collegiale Christian Laettner, unico superstite della precedente visione di basket Olimpico. Era nato il Dream Team.

Quello che accadde una volta formata la squadra supera a tratti il confine della storia sportiva per trascendere nel mito: partite dominate con scarti sempre di almeno 30 punti tanto nel torneo di qualificazione quanto alle Olimpiadi vere e proprie, avversari che scendevano in campo con le macchine fotografiche per immortalarsi con i loro idoli prima di sottoporsi al massacro e allenatori che spronavano i loro giocatori per mantenere scarti umani e non per vincere la partita. Si racconta che Barkley, ripreso da Jordan dopo un contrasto troppo duro nella partita inaugurale contro Angola, si difese dicendo di voler intimorire gli avversari. La risposta di Sua Ariosità fu lapidaria: “Charles, ci chiedono di farci foto con loro prima che la partita inizi, credi ci sia bisogno di intimidirli?”

Nemmeno la finale con la Croazia, già affrontata e demolita nel girone iniziale, riservò ne sorprese ne tantomeno la parvenza di essere una partita vera. L’oro, tanto scontato quanto destinato a rimanere nel mito, fu conquistato lasciando un segno indelebile su tutto lo sport mondiale. Seul era vendicata, la storia del basket invece era cambiata per sempre.

Flavio Giordano

 

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