Come è cambiata la recitazione cinematografica con l’avvento della grafica computerizzata?
I massimi esperti di cinema dovrebbero riconoscere il talento di chi, senza mostrare il proprio volto, anima personaggi fantastici conferendogli espressioni e sentimenti umani? Pensa ovviamente di sì Andy Serkis, l’attore mago del motion capture che fa vendere più di Brad Pitt.
Continua la saga reboot della fortunata serie anni Sessanta e Settanta Il pianeta delle scimmie, e a trucco e parruco è stato sostituito il motion capture. Il rifacimento moderno è iniziato con L’alba del pianeta delle scimmie del 2011 ed è arrivato al terzo capitolo, uscito contemporaneamente nelle sale di tutto il mondo il 13 e 14 luglio e intitolato The War: il pianeta delle scimmie. Protagoniste della storia scimmie intelligenti, che in questo ultimo capitolo della saga dichiarano guerra agli umani.
Andy Serkis, ancora una volta, ha incantato tutti. Svestiti i panni del perfido Snoke di Star Wars: Il risveglio della Forza, del gigantesco King Kong e del celebre Gollum de Il Signore degli Anelli, questo 53enne britannico da tre film sorprende le platee mondiali camminando sulle ginocchia e interpretando carismaticamente il suo Cesare: uno scimmione evolutosi per un esperimento di laboratorio finito male, coraggioso come il suo storico omonimo umano, pronto a combattere fino alla morte per i suoi simili. Non un compito facile, parlare e muoversi come farebbe una scimmia, e gran parte dei critici cinematografici di tutto il mondo è ormai d’accordo nel ritenere le doti attoriali di Serkis eccellenti, puntualmente messe in mostra ad ogni occasione in cui indossa sensori di ogni genere e recita di fronte ad un telo nero, ciò che è appunto la performance attoriale nel mondo del motion capture.
Eppure parlare di una sua candidatura agli Oscar sembra ancora un tabù.
Troppo rilevante la veste grafica che contorna le sue espressioni e i suoi movimenti, troppo poco conosciuto Serkis tra il grande pubblico che forse, pur avendolo visto in numerosi film, non lo riconoscerebbe incontrandolo dal vivo o leggendo le sue storie di gossip sul settimanale di turno. La polemica venne sollevata all’indomani del grandioso successo del suo Gollum, che gli poteva valere la candidatura agli Oscar come miglior attore non protagonista, e che invece non gli valse alcun riconoscimento proprio per le ragioni suddette.
Ma cosa aggiunge una veste grafica digitale alla performance di un attore?
Innanzitutto, nonostante sia diffusa la tendenza a ritenere le moderne conquiste del cinema digitale come slegate dalla storia passata del mezzo, è bene chiarire che già sul finire del XIX secolo – e quindi in concomitanza con la nascita “ufficiale” del cinema – il fotografo e medico francese Etienne-Jules Marey realizzava degli schemi vettoriali del movimento di individui, ricercando ciò che lui stesso definiva «una cronofotografia». Il metodo era semplic, ed è grossomodo lo stesso utilizzato oggi per il motion capture: Marey faceva vestire di nero i suoi soggetti, li dotava di strisce bianche sui fianchi e bottoni bianchi sulle giunture, e poi scattava foto in successione, così che un modello vettoriale dell’uomo fosse visibile in movimento sulla pellicola. Oggi, questo modello vettoriale viene digitalizzato e poi rivestito di pixels.
Qualcuno afferma che la maggiore novità conseguente all’utilizzo del motion capture è che l’attore che agisce non è esattamente ciò che poi vedremo ripreso sullo schermo, ma è bene chiarire che ciò è vero anche nel caso della recitazione “normale”, ovvero quella in cui l’attore è poi riconoscibile sulla pellicola. Potremmo mai affermare che la chiazza di colore bidimensionale presente su una lastra di cristalli liquidi o proiettata su un telo sia l’attore che recita? Essa non lo è, ma è il nostro cervello che le conferisce profondità e verosimiglianza.
L’immagine cinematografica è sempre un qualcosa di differente dalla realtà, lo asseriva Luigi Pirandello nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in cui il protagonista – un operatore cinematografico – descriveva così la sensazione di straniamento che gli attori teatrali provavano sul set:
Qua si sentono come in esilio. Non soltanto dal palcoscenico ma da se stessi… La loro azione, l’azione viva del loro corpo vivo non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso indefinibile di vuoto, anzi di vuotamento, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà…
Guardando poi alla storia del motion capture, non sfuggirà che il primo utilizzo per l’enterteinment di questa tecnica risalga a Max Fleischer, che nel 1915 in maniera geniale produsse un cartone animato disegnandone i protagonisti ricalcando le scene di una pellicola con attori in carne ed ossa. Egli aveva capito, come Marey, che la fotografia (e dunque il fotogramma) è sempre un modello stilizzato della realtà fotografata, tanto che utilizzava quello stesso modello per animare i suoi disegni, allo stesso modo in cui le case di produzione odierne animano disegni digitali.
Ciò che l’accademy non comprende è dunque che si commette un grave errore nel confondere l’attore con la sua immagine filmica: quest’ultima è sempre una versione stilizzata e trasformata della sua fisicità, è sempre frutto di una serie di effetti visivi decisi dal regista o dal direttore della fotografia, addirittura dagli addetti ai costumi e al trucco.
L’accademy non si è mai domandata se fosse giusto assegnare gli Oscar come miglior attore a costumisti o direttori della fotografia, perché quel tipo di oscar va alla performance attoriale, non certo all’immagine dell’attore.
Valerio Santori
(twitter: @santo_santori)