L’immensa catastrofe dei rifugiati e dei migranti che ormai focalizza l’attenzione di tutto il mondo sembra non essere più solo un problema politico e sociale, ma anche una vera e propria questione scientifica. Con l’apparente necessità di studiare a fondo la questione per capire in che termini la nostra società riuscirà ad accogliere le migliaia di disperati che ogni giorno, con ogni mezzo e difficoltà, provano a cercare una vita migliore.
Lo studio della Stanford University, da poco pubblicato su Science, analizza le attitudini di ben 18.000 cittadini europei cercando di comprendere come ognuno di noi riesce a porsi rispetto al dramma dei rifugiati.
L’obiettivo della ricerca è delineare un profilo di rifugiato “tipo” che ha maggiori probabilità rispetto ad altri non solo di essere accolto ma anche di stabilirsi e di costruire una nuova vita.
Sembra esserci poco di scientifico in tutto ciò, ma quello che evidenzia lo studio è decisamente reale e si basa sul fatto che la nostra mente, e di conseguenza il nostro comportamento, è profondamente influenzato da eventi recenti e lontani e da “dati di fatto” per noi scontati ma ben diversi da quelli delle società da cui provengono migliaia di rifugiati.
La paura
La paura appunto, che sia dei rifugiati, di quelli con la pelle scura, di un’altra religione o che parlano un altra lingua poco importa. Essa agisce in maniera netta sul nostro comportamento e va a definire le nostre reazioni compresa l’avversione rispetto a questo fenomeno ormai palpabile in tutta Europa.
Ecco allora che il rifugiato di religione musulmana ha 11 punti percentuali in meno di “essere accolto” rispetto ad un soggetto di religione cristiana o altro. Paga la storia recente, quella degli attentati e della violenza. Paga una paura ormai radicata dentro di noi.
Il nostro status
Contribuire economicamente al paese in cui si risiede rimane, seppur in tempi di crisi, un’elemento fondante della nostra cultura e nello studio in questione dimostra di esserlo anche riguardo la nostra concezione di rifugiato.
Chi proviene da paesi estremamente poveri, non ha un titolo di studio adeguato e presenta grosse difficoltà linguistiche ha fino al 13% in meno di probabilità di farcela. Sostanzialmente perché, nell’immaginario collettivo, non potrà contribuire adeguatamente.
Le nostre convinzioni
Chi ha subito violenze o torture ha maggiori possibilità di essere accettato in un paese occidentale. Segno evidente che, parlando di rifugiati, ci sfugge palesemente che da un paese in guerra e senza democrazia scappano tutti, ricchi e poveri, colti e meno colti, al di là di quello che gli è successo.
Essere rifugiati è una definizione molto complessa che molto probabilmente non riusciamo ancora ad apprendere appieno.
A questo punto chiedersi se uno studio del genere sia o meno necessario è normale. Quello che è certo è che i sentimenti di avversione e discriminazione verso i rifugiati sono talmente diffusi che in qualche modo è necessario identificarli, quantomeno per provare ad arginarli.
E’ anche certo, tuttavia, che un mondo positivo non dovrebbe necessitare di una analisi così approfondita per comprendere chi ce la farà e chi no, chi sarà “rifugiato” e chi dovrà tornare a casa (se c’è ancora). In una sorta di competizione abbastanza agghiacciante.
Un mondo positivo dovrebbe accogliere con le giuste regole ma con umanità, sempre e comunque, e non dovrebbe aver bisogno di identificare le ragioni per cui non ce la fa.
Ma evidentemente la strada è ancora troppo in salita. L’effetto della paura e di altre emozioni ci condiziona ancora pesantemente, portandoci all’odio e peggio ancora all’indifferenza. Che si tratti di rifugiati o di altre realtà in difficoltà.
Adesso, comunque, sappiamo bene o male cosa c’è che non va, il resto spetta solo a noi.
Mauro Presciutti