L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, l’OCSE, ha pubblicato un rapporto, denominato Preventing Ageing Unequally, in cui traccia i contorni anagrafico-occupazionali del nostro Paese, evidenziando in particolare che negli ultimi 30 anni il gap fra le vecchie e nuove generazioni si è allargato.
E dire che solo pochi anni fa – almeno per la generazione nata a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 – il refrain era pressoché identico per tutti: i genitori stanno economicamente meglio dei nonni, i figli staranno meglio dei genitori.
Negli ultimi tempi lo scenario è drasticamente cambiato, e l’impressione è che, oggi, i figli non solo stiano peggio dei genitori, ma è spesso soltanto grazie al contributo economico di questi ultimi che sono in grado di mantenersi.
Il rapporto dell’OCSE mette nero su bianco ciò che si percepiva già, aggiungendo al novero delle previsioni che l’età media degli italiani sta progressivamente crescendo, tale per cui fra 30 anni il numero degli over 65 sarà il doppio rispetto a quello di adesso.
Non solo, perché in quello che nel prossimo futuro potrebbe diventare il Paese più vecchio al mondo, i giovani saranno sempre più poveri – peggio, se possibile, della condizione in cui versano attualmente –, senza un lavoro stabile e con un alto tasso di diseguaglianza fra uomini e donne, queste ultime retribuite in media il 20% in meno rispetto ai colleghi.
Inoltre, dal momento che tali diseguaglianze hanno la tendenza ad aumentare durante la vita lavorativa, le previsioni dell’OCSE parlano anche di un riproporsi di siffatta differenza anche sul trattamento pensionistico degli uomini e delle donne del 2050, nell’ambito di un processo in base al quale l’ineguaglianza salariale finisce con il trasformarsi in un’ineguaglianza previdenziale.
Ciò anche a causa della direzione presa dalle riforme previdenziali, che hanno per alcuni versi irrobustito il legame fra i diritti pensionistici e ciò che si è guadagnato durante la propria vita lavorativa.
Solo cattive notizie dall’OCSE, insomma, almeno per quello che concerne il prossimo futuro, in assenza di riforme adeguate e congiunture economiche favorevoli.
Se vale, però, il vecchio detto secondo cui “mal comune, mezzo gaudio”, allora è opportuno rilevare che nei due terzi dei 35 Paesi censiti dall’OCSE le disuguaglianze reddituali crescono da una generazione all’altra.
Questo appare essere il dato più sorprendente, se si pensa che la percentuale delle donne lavoratrici è in aumento rispetto al passato, anche per la necessità di contribuire all’economia famigliare, esigenza che una volta era meno sentita.
Le donne, dunque, lavorano di più che in passato, ma il loro contributo è sottovalutato dal punto di vista economico rispetto a quello degli uomini, dato che si scontra, senza alcuna attenuante, con l’immagine di civiltà sociale ed economica che gli italiani vorrebbero riferire al proprio Paese.
Di fronte a un dato così crudo, le domande sono molteplici ed è molto forte la tentazione di dare la colpa alla politica, incapace di gestire una transizione generazionale che non ha reso tutti soltanto più poveri, ma anche senza speranza e fiducia sui destini economici dell’Italia.
Tuttavia, la verità può anche essere che il tempo delle autocommiserazioni, se mai ci sia stato, sia finito e che i dati che scaturiscono dal rapporto OCSE possano costituire la presa di coscienza definitiva sulla situazione attuale e su quella del futuro più prossimo.
Il che può tradursi, a sua volta, in uno sprone per cambiare le cose dal basso, senza confidare troppo in un intervento della politica, che oltre a non avere il passo – e forse neanche le capacità – non possiede, d’altro canto, neanche la bacchetta magica delle fiabe per trasportare nell’Italia di oggi i tempi dei vari boom economici che hanno caratterizzato la sua storia in un passato che non tornerà.
Carlo Rombolà