Il 20 dicembre 2015 al teatro Sant’ Artema a  Monteruscello è stato presentato l’ultimo lavoro del regista Mauro di Rosa e dell’ associazione En Art: “Figli di Medea”.

“Figli di Medea” è un cortometraggio autoprodotto, alla cui creazione hanno partecipato Antonio Vitale, Antonella Cioli, Gianfranco Terrin, Enzo Perna, Pasquale Ioffredo, nomi noti nello show business internazionale, quasi tutti nati come artisti di teatro, così come lo stesso regista. Mauro di Rosa è infatti attore teatrale ed insegnante di drammatizzazione prima di essere regista cinematografico, carriera che ha intrapreso nel 2011 con il corto “L’ arte di arrangiarsi” (che ha vinto il premio M. TROISI come miglior produzione comica) e che arriva fino ad oggi con la sua ultima creazione.

Il corto è un intreccio di storie e sentimenti che hanno in comune la cornice: un quartiere di Napoli degradato sia dal punto di vista paesaggistico che morale, in cui ognuno svolge il proprio ruolo o lavoro, adeguandosi ad una mentalità di stampo camorristico persistente in queste terre, rifiutandosi di credere ad un possibile cambiamento o a lottare per questo, chiudendo gli occhi davanti a situazioni incresciose, che diventano elementi costitutivi di una realtà triste e profondamente sbagliata. In sintesi, sono tutti “figli di Medea”. I personaggi sono molto diversi fra loro: c’è Michele, un giornalista vero, che non si spaventa davanti alle ingiustizie, che crede nella vera informazione, che allo stesso tempo deve sottostare ad un caporedattore il cui unico scopo è ottenere un ritorno economico; Lello, un ragazzo semplice, che lavora in salumeria, che si innamora perdutamente di una ragazza e trova il modo di esprimersi attraverso un libro, un mezzo inusuale per il contesto sociale in cui è cresciuto; Giuseppe, grande lavoratore che per amore della figlia decide di andarsene da queste terre inquinate e sporche, per darle un futuro migliore. Tre figure atipiche che mettono in luce gli aspetti più negativi di una determinata realtà ed allo stesso tempo ispirano speranza: la speranza nel cambiamento, in una possibile rivoluzione, un rinnovamento necessario e indispensabile per il futuro. Ognuno di noi dovrebbe prendere esempio dal comportamento di Michele, che combatte per ciò che è giusto, senza paura di mettersi contro la maggior parte delle persone che gli vivono attorno, o la sua stessa famiglia, accondiscendente nei confronti di una realtà statica ed immobile.

È evidente, ed emerge dai 26 minuti di girato, quanta intenzione ci sia di fare una spietata critica della società, dell’ ambiente giornalistico, del mondo del lavoro. Tutto ciò viene trasmesso in modo brusco perché spesso e facilmente ci si può riconoscere nelle parole di chi si è rassegnato ed ha accettato che “le cose vanno così”, e ribellarsi più di tanto non ha un senso. “Figli di Medea” è un corto forte, che lascia dentro tanti interrogativi ed una necessità di cambiamento, di lotta.

figli di medea
figli di medea – frame

Per capirci di più siamo andati alla fonte, ed abbiamo fatto qualche domanda al regista.

Come prima cosa, è da sottolineare che questo cortometraggio è autoprodotto. Ciò ha un significato particolare per la finalità del progetto?

“Si, in effetti è un modo per contrastare questo periodo di crisi che c’è nell’arte e nella cultura di questo paese. Aspettare che qualcuno ti produca è difficile al punto da diventare deleterio, spesso non ci si riesce a mettersi in gioco, a lavorare. Per noi  (parlando come associazione En Art) autoprodursi è un modo per far capire che c’è tanto materiale su cui lavorare, sia umano che tecnico. Ed è quindi un modo per far capire che questa terra non è morta. Qui ritorna il messaggio del cortometraggio, il messaggio di speranza che cerco di dare, che è questo: la speranza nasce da noi stessi. E ho cercato di tirarlo fuori nel lavoro, facendo vedere anche l’ entusiasmo e la voglia di produrre questo corto”.

Parliamo di speranza: nel corto è evidente il contrasto fra chi ne ha e chi no, fra chi si rassegna e chi continua a non farlo. A proposito di questo, pensi che l’ arte in questo periodo possa avere un messaggio sociale e non solo una finalità estetica?

“Penso che la finalità estetica sia molto soggettiva, può essere importante fino ad un certo punto. Ritengo che il messaggio fondamentale sia che l’arte in sé è un mezzo per smuovere coscienze. Non al caso nel lavoro c’è la storia di uno dei protagonisti che proprio attraverso un libro trova un modo per dichiararsi, ed è un modo per dire che la cultura è uno dei mezzi che può aiutarci a smuovere le difficoltà che ci sono oggi, sia personali che sociali”.

Parlando delle storie, dei dialoghi, si può dire che hai presentato le cose in modo molto particolareggiato, come se ci fossi dentro. Ciò viene da un esperienza personale o da una ricerca?

“Entrambi. Infatti posso dire che ho vissuto in prima persona in queste zone ed in ogni personaggio c’è qualcosa di me, sia in maniera diretta che indiretta. “.

Ad esempio?

“Lavorando per tanti anni come esperto di recitazione in progetti per ragazzi a rischio nelle scuole ho avuto modo di vivere contesti particolari che mi hanno fatto capire come alcuni problemi non siano limitati ad un solo quartiere, ma siano un modo di vivere e pensare che vive all’ interno di determinate zone. Incontrare ragazzi che a dodici, tredici anni alla domanda “quale è il tuo sogno?” non sanno rispondere o rispondono “realizzarmi in qualcosa di reale” vuol dire che non c’è la capacità di uscire al di fuori di quello che è il contesto sociale. Questa è una cosa molto grave. Come se il contesto opprima in tal modo che non sia possibile uscirne”.

Maria Pia Napoletano

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