Dopo il grande successo di Birdman vincitore di ben quattro premi Oscar (miglior film, regia, sceneggiatura e fotografia) il regista messicano Alejandro González Iñárritu alza l’asticella e decide di raccontare una storia di vendetta cruda e autentica.
Revenant – Redidivo ha innumerevoli punti di forza, più di tutto però la grandezza del film è dovuta allo sguardo, sempre riconoscibile e ancora più maturo, di Iñárritu e alla potenza delle immagini che Emmanuel Lubezki confeziona in modo praticamente perfetto.
Sulle spalle (ferite) di Leonardo DiCaprio si poggia l’intera trama: Hugh Glass (DiCaprio) dopo esser stato attaccato e ferito da un orso assiste impotente all’omicidio del giovane figlio (un mezzosangue) per mano del crudele Fitzgerald (Tom Hardy), suo compagno di viaggio. Il desiderio di vendetta e la forza di volontà lo spingono a cercare l’uomo per vendicare il figlio.
Iñárritu adotta per questo film scelte di regia già collaudate in Birdman ma attinge anche a piene mani nella filmografia di Terrence Malick in alcune scene. Revenant, infatti, sembra ereditare una buona quantità di elementi presenti nella filmografia del regista texano. Su tutti i numerosi flashback, raramente usati da Iñárritu in passato, e la voce fuori campo lirica e suggestiva che li accompagna. L’attenzione quasi ossessiva per la natura, i quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco), la presenza di animali con forti connotazioni simboliche (l’uccello/anima che sbuca dal petto della defunta moglie di Glass). Il legame tra i due registi è rappresentato soprattutto dal direttore della fotografia Lubezki, che probabilmente con questo film si conferma uno dei migliori in circolazione attualmente. Non a caso quest’anno potrebbe ottenere per la terza volta consecutiva l’Oscar per la miglior fotografia.
La cifra stilistica di Iñárritu resta comunque ben visibile, egli infatti non si nasconde dietro questi omaggi. I virtuosismi della macchina da presa (mai fini a se stessi), i numerosi piani sequenza e i temi (su tutti quello padre/figlio) fanno ormai parte del suo personalissimo modo di fare cinema. Le sue immagini, prive di qualsiasi sbavatura estetica, seducono lo spettatore lavorando sia sui dettagli (formiche che lottano tra loro) che su ampie vedute degli ambienti non ancora contaminati dall’uomo. Il fiato di Hugh Glass appanna l’obbiettivo e gli schizzi di sangue o la neve sciolta lo sporcano. Il commento musicale, in alcuni punti composto più da suoni suggestivi che una vera e propria musica, accompagna le azioni senza infastidire. Solo quando, durante il viaggio di Glass, la musica assume toni più epici il risultato si rivela essere meno efficace.
DiCaprio per gran parte del film è l’emblema della sopravvivenza: striscia, arranca, combatte e sanguina per ottenere quello che vuole. La sua performance, indubbiamente di qualità, è comunque inferiore ad alcune fatte in passato (su tutte quelle in The Wolf of Wall Street e The Aviator). Il suo rapporto con la natura è viscerale, avvolgente. Glass si veste letteralmente della pelle dell’orso che ha ucciso (una delle migliori scene di tutta la filmografia di Iñárritu) e inizia a comportarsi esattamente come lui: camminando, mimetizzandosi nella foresta e pescando a mani nude. Il suo comportamento da selvaggio (una scritta a metà film recita proprio “Siamo tutti selvaggi”) lo avvicina più all’essere animale che all’essere umano.
Revenant è un’esperienza sensoriale di altissimo livello. Lo spettatore si immerge completamente nella visione, ammaliato dalle immagini perfettamente calibrate. Tra echi da film western e rime di forma e di sostanza (su tutte il dettaglio dell’occhio del cavallo che si ripete, speculare, due volte) Iñárritu firma un film vivo, autentico e meno cervellotico del precedente.
Andrea Piretti