L’ordine delle Cose di Andrea Segre, presentato in anteprima alla 74esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è struggente seppur composto. Nelle sale dal 7 Settembre, il film inchioda una tematica attuale con episodi fittizi che si prestano facilmente alla narrazione di storie ordinarie sui flussi migratori. La nostra recensione su una pellicola che marca il segno dei nostri tempi.

Girato fra la Sicilia e le coste libiche, “L’ordine delle cose” si esprime su una tematica al centro del dibattito politico e sociale. Lo fa dal punto di vista di Corrado, interpretato da Paolo Pierobon, un funzionario del Ministero degli Interni specializzato in missioni internazionali, a cui viene conferito un incarico ostico: delimitare i flussi migratori. Dovrà partire per una missione in Libia, dove si rapporterà con una realtà inimmaginabile e una serie di ostacoli che renderanno complicato il suo lavoro.

Il regista Andrea Segre mantiene l’equilibrio sul piano dell’emotività. Non concede quasi nulla ai suoi personaggi, neanche ai migranti assorti in una disperazione pacata.

Corrado, però, incepperà nei suoi stessi passi prestando aiuto ad una giovane donna somala.

In quell’episodio è evidente il dissidio interiore al quale la narrazione conduce: c’è un’indole empatica in noi, che riconosce l’altro senza il bisogno di parlare la stessa lingua, senza l’obbligo di avere lo stesso colorito di pelle. Come portare a termine allora il proprio dovere se questi oscura il principio di convivenza pacifica e amorevole tra simili?

Scena dal film L'ordine delle cose Andrea Segre
Scena dal film “L’Ordine delle cose”

«Quello che volevo raccontare – dice il regista Andrea Segre a La Repubblicaè proprio il funzionario, stretto fra le indicazioni della politica e il richiamo dell’umanità. Ne ho incontrati diversi, e mi hanno espresso il loro tormento.»

È una posizione scomoda, un contrasto accentuato dall’apparente passività con la quale vengono a galla durante il film particolari che snocciolano la trama, alludendo ad accordi segreti che evidenziano, per vie traverse, una certa connivenza degli Stati di fronte ad un mercato illecito di donne, uomini e bambini nati dalla parte “sbagliata” del mondo.

La narrazione degli eventi è lineare, poche allusioni a ciò che è stato, anzi si tenta di focalizzare l’attenzione dello spettatore sull’hic et nunc.

Il messaggio recondito nascosto in questa pellicola però è riconducibile ad un inciso che potrebbe suonare antitetico: «La storia è una continua lotta tra borghesia e proletariato». La lotta alla disuguaglianza resta, a distanza di anni, il primo punto per costruire un mondo migliore. Anche Corrado, uno che segue in maniera scrupolosa rigide direttive, ne prende atto e ciò smuove del tutto il suo contegno.

Esistono dunque due realtà: quella effettiva e quella convenzionale. Il protagonista si approccia al suo incarico con saccenza, forte di una concezione fittizia della realtà, ma solo quando vedrà con i suoi occhi ciò che la stessa è capace di produrre avrà di fronte a sé la realtà effettiva. È un gioco di punti di vista: osservando un fenomeno da vicino si possono notare maggiori particolari.

La visione è consigliata soprattutto a chi non si risparmia mai dal compiere sciacallaggio politico, a chi quotidianamente spende il suo tempo commentando post sui social con insulti razziali o tirando in ballo gli immigrati per qualsiasi evento infausto che purtroppo accade; non necessariamente perché ciò che si evince dal film possa essere giudicato veritiero, ma per rapportarsi con se stessi e percepire la difficoltà di Corrado.

Se questa sarà la reazione suscitata dalla visione – per quanto possa essere ridotto il contesto – allora si potrà notare un piccolo “richiamo dall’umanità”.

Andare a ripescare nel profondo del proprio animo quella inclinazione naturale e scomposta da parte degli esseri umani che romperà l’equilibrio del film e che riconduce al proteggersi l’un l’altro.

Tanto banale, quanto efficace.

Giuseppe Luisi

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