Tra i relatori della seconda giornata della summer school Ucsi, incentrata sulla tematica “Ucciso perché solo“, figura Leonardo Guarnotta, giudice istruttore del maxiprocesso a Cosa Nostra.
Guarnotta ha ricordato gli anni della sua carriera giudiziaria, in cui ha lavorato a stretto contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, presso il Tribunale di Palermo: «Gli anni più stimolanti, un’esperienza umana senza precedenti», afferma. Era legato ai due magistrati da un rapporto di amicizia, prima ancora che professionale: «Paolo era una persona molto espansiva, di grande umanità e di incrollabile fede cristiana. Ogni sabato veniva a trovarmi nel mio ufficio, facendo un resoconto di ciò che era accaduto nel corso della settimana. La sigaretta non gli mancava mai».
Grande spazio per la commozione, al ricordo dell’uccisione di Borsellino, quel 19 luglio 1992 in via D’Amelio: «Paolo era di ritorno da un viaggio a Roma. Aveva parlato con Parisi. La moglie mi disse che era tornato profondamente turbato, quanto cambiato, da quell’incontro. ‘Oggi ho visto la mafia in faccia’ confidò alla moglie. Le disse anche che aveva bisogno di parlarmi con assoluta urgenza. Ma quel giorno d’estate avevo accompagnato la mia famiglia al mare. Andai dopo da lui, però era troppo tardi. Il mio rammarico più grande è non aver fatto in tempo ad incontrare Paolo. Desiderava parlarmi con assoluta urgenza. Posso garantirvi che qualsiasi cosa mi avesse detto, non l’avrei tenuta per me».
Dalla platea viene chiesto a Guarnotta della clamorosa agenda rossa di Borsellino: «Non so effettivamente Paolo cosa vi annotasse. La sua scomparsa rimarrà un buco nero della storia, come il fatto che il covo di Riina fosse stato perquisito a distanza di due settimane dalla sua cattura. Erano i carabinieri a desistere, temevano che altri mafiosi si nascondessero ancora lì e sarebbero potuti fuggire. Ma se della cattura di Riina sapevano persino i muri?!»
Ha poi proseguito: «Quando con Giovanni finivamo di lavorare fino a notte tarda, era solito dire ‘Si è fatto tardi, togliamo il disturbo allo Stato’. Perché c’era un micro-Stato, una società civile, dalla nostra parte. E un macro-Stato a cui davamo disturbo. Cos’è la mafia, in fondo? Un anti-Stato dentro lo Stato! Ecco perché non è stata ancora debellata: il terrorismo è al di fuori dello Stato, la mafia ci sta dentro fino al collo! Contro di essa le battaglie si combattono nelle Regioni e sul territorio. Ma la guerra si può vincere solo a Roma. E se da lì non arrivano agli enti locali risorse umane e finanziarie, è tutto inutile».
Tina Raucci