Si stima che nelle carceri italiane gli Hiv positivi siano ad oggi circa 5.000. I responsabili sono soprattutto rasoi e spazzolini incautamente condivisi, eppure la causa principale della diffusione del virus si è rivelata essere l’ignoranza. Il progetto “Free to Live well with Hiv in Prison” condotto da SIMSPe, NPS Italia Onlus, Università Ca’ Foscari Venezia con la collaborazione del Ministero della Salute e del Ministero della Giustizia ha messo in evidenza quanto poco sappiano carcerati e polizia penitenziaria riguardo le modalità di trasmissione del virus.

La ricerca ha raggiunto oltre mille persone tra uomini e donne e 10 carceri sparsi su tutta la penisola, coinvolgendo per la prima volta all’interno di un’indagine sistematica una struttura penale per minorenni. Il progetto ha previsto una prima fase di raccolta dati che ha svelato un insufficiente livello di conoscenza delle infezioni del virus dell’immunodeficienza umana. Ancora oggi l’Hiv è protagonista di falsi miti e paure del tutto infondate come la credenza generale che si possa trasmettere tramite la saliva.

Dall’analisi iniziale sono emersi diversi elementi interessanti. Innanzitutto, ed è una notizia positiva, un minore discriminazione nei confronti dei malati. “Nel complesso il pregiudizio sociale verso la malattia sta calando. – racconta Alessandro Battistella, docente della Ca’ Foscari – “Oggi i detenuti sono meno preoccupati che si venga a conoscere una eventuale sieropositività, e al contempo circa un quinto considera giusto non conoscere la potenziale sieropositività del compagno di cella”.

“Circa il 60% dei partecipanti alla ricerca ha ammesso di ritenere possibile il contagio attraverso lo scambio di saliva – continua Battistella – e in molti credono ancora che il virus possa essere contratto condividendo gli spazi o i sanitari con un sieropositivo”.

La raccolta dati ha, dunque, aiutato a comprendere meglio quali fossero i punti critici su cui agire e tracciare così le linee di intervento per contrastare al meglio il dilagare dell’infezione. Il primo intervento che si è dimostrato indispensabile è stato quello di coinvolgere “peer educators“, cioè ex-detenuti che attraverso un percorso di formazione hanno potuto insegnare gli altri detenuti come affrontare correttamente il virus: dalla prevenzione, ai test, al giusto atteggiamento per evitare l’isolamento dei malati. In questo modo sono state abbattute barriere linguistiche e di status sociale che avrebbero rischiato di indurre una certa resistenza all’ascolto e alla comprensione.

Tra i dati emersi va sottolineato anche un dato preoccupante: la limitata fiducia nella terapia per l’infezione da HIV. Solo il 68% dei detenuti la assumerebbe se si scoprisse sieropositivo.

“Molti soggetti hanno detenzioni di breve durata – dice Serena Dell’Isola, Coordinatrice Scientifica del progetto – e la possibilità di fornire e somministrare (loro) i test, il trattamento farmaceutico e un collegamento ai servizi di assistenza consente di migliorare la salute dell’intera società, riducendo il rischio di trasmissione e i costi legati alle comorbilità collegate a tali infezioni.”

Per la prima volta sono stati introdotti negli istituti, dei test HIV rapidi con prelievo capillare. Si tratta di test molto semplici: il medico preleva, dopo una puntura con un pungidito, una goccia di sangue e dopo soli 15 minuti avrà disponibile il risultato. Ogni test è stato preceduto da un colloquio mirato a fornire informazioni sul virus dell’HIV e ad illustrare i dettagli sul funzionamento del test. La possibilità offerta a tutti i carcerati è stata accolta con un consenso generale e ha permesso di effettuare valutazioni su soggetti che altrimenti non avrebbero forse mai preso l’iniziativa.

“Il progetto Free to Live Well with HIV in Prison è stato condotto con entusiasmo e competenza dalla nostra Società Scientifica – afferma Luciano Lucania, presidente di SIMSPe – Ha voluto sperimentare una cooperazione multiattoriale con partner eterogenei per competenze e mission, per integrare i rispettivi know how in iniziative innovative e con una forte ricaduta sistemica. Le singole specificità hanno rappresentato un valore aggiunto unico per il progetto. I risultati sono certamente destinati a generare degli effetti sostenibili e duraturi”.

Angela Abate

 

 

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