È oramai da mesi che, quando non si parla di accordi politici o tornate elettorali, si discute solo ed esclusivamente del Jobs Act. Quali effetti possono avere l’abrogazione dell’art. 18 e la riforma del lavoro?
Il 2 ottobre Marchionne ha testualmente dichiarato “Renzi, l’abbiamo messo lì per andare nella direzione del cambiamento” e quest’affermazione non è mai stata smentita dal diretto interessato (il premier) né ha ricevuto visibilità mediatica, riuscendo ad avere una briciola di ribalta solo perché citate qualche settimana fa da Susanna Camusso. L’ad FIAT sembrava dettare l’agenda politica al Governo ed aveva lo stesso spirito del premier, lasciando intuire che il dialogo con i sindacati non era cruciale purché si accelerassero i tempi delle riforme e si giungesse a risultati concreti per i lavoratori. Sarebbe agevole liquidare la questione asserendo che rendere i licenziamenti più facili è una manovra di palazzo, una conseguenza delle teorie neoliberiste oppure una volontà dei poteri forti, ma non è nostra abitudine trattare argomenti così rilevanti con superficialità.
Cari lettori, benvenuti a questo nuovo appuntamento con “The economist corner”. Spero perdonerete la scelta di trattare un argomento trito e ritrito ma vi assicuro di poter essere molto più stupefacente delle dichiarazioni di Marchionne senza sfociare in teorie del complotto ma analizzando i fatti, come è sempre avvenuto in questa sede.
Sarebbe semplicistico credere che il Jobs Act è una conseguenza delle teorie neoliberiste dominanti le quali fanno leva sulla flessibilità dei salari, quindi sull’offerta, piuttosto che sulla domanda. In parole semplici: con un abbassamento delle retribuzioni, l’imprenditore può impiegare maggiore manodopera ad un costo minore; così aumenta l’offerta di prodotti, il margine per l’imprenditore è maggiore. A questo punto, se i produttori volessero fidelizzare la clientela, pagando di meno la manodopera, potrebbero addirittura diminuire i prezzi: sembra tutto molto bello. Ma abbiamo dimenticato la cosa più importante: la domanda! L’aumento dell’offerta è una diretta conseguenza delle istanze dei consumatori: aumentano i consumi, aumenta la richiesta di beni e servizi, aumenta l’offerta. La mossa del Governo va esattamente nel senso opposto! Difficilmente si verificherà un aumento dell’offerta senza maggiore richiesta ma, se così fosse, sarebbe un vero boomerang perché ad un aumento della quantità di beni e servizi prodotti non corrisponderebbe un aumento della domanda, quindi ci sarebbero grandi quantità di prodotti che resterebbero invendute e si innescherebbe un terrificante fenomeno economico chiamato deflazione.
Potrebbe chiudere la discussione un discorso della docente dell’Università degli studi di Firenze a Lineanotte: “Uno dei pochi punti in comune tra economisti keynesiani e liberisti è che la flessibilità del lavoro, in una situazione di recessione, non crea occupazione se non accompagnata da investimenti”. Davanti a queste parole aumentano i dubbi sull’utilità di questa misura e, se non bastasse, l’OCSE ha pubblicato uno studio che dimostra come l’Italia sia il Paese che da inizio anni 2000 ha modificato di più le norme in materia di flessibilità sul lavoro ed ha ottenuto i peggiori risultati fra le grandi economie mondiali. La mossa sembra essere poco utile perché il numero di dipendenti a tempo indeterminato è in forte calo, quindi i nuovi assunti non sono tutelati quasi mai dell’articolo 18 e perché solo il 3% dei lavoratori italiani ne usufruisce.
Qualcuno potrebbe pensare che il bonus 80 euro, oltre ad essere una misura di giustizia sociale, è stata una misura che ha tentato di andare in direzione investimenti. Potremmo ribattere che “è stata una mancia elettorale” e l’hanno detto in tanti, ma non è nel nostro stile ed entrambi i punti precedenti possono essere facilmente contraddetti:
- il famoso bonus non stimola i consumi e l’avevano già annunciato un ente autorevole come l’ISTAT e i tecnici del Senato (definiti “Gufi”);
- non è una misura di giustizia sociale in quanto non lo percepiscono, a dispetto delle promesse, i soggetti più disagiati e con gli stipendi bloccati (dipendenti pubblici; pensionati; soggetti con reddito minore ad 8.000 euro).
Volendo semplificare al massimo la questione, potremmo dire che tutti noi notiamo la massa di esercizi commerciali che stanno rinunciando all’attività d’impresa (63 al giorno), i cui locali sono spesso ceduti ad un costo minore di quello d’acquisto piuttosto che ad uno superiore come normalmente dovrebbe avvenire. In una situazione del genere e con un’occupazione al 12,3% (dati di agosto), qual è la soluzione? Facilitare i licenziamenti. Un colpo di genio, insomma: avevamo fra di noi i nuovi Adam Smith e rischiavamo di non notarli.
Ferdinando Paciolla