L’orrore della deportazione nei campi di concentramento nazisti durante la seconda guerra mondiale non ha conosciuto pietà né ritegno. La sopraffazione dell’uomo sull’uomo, la violenta applicazione di assurde teorie su razze pure ed impure, la crudeltà che diventa abitudine quotidiana sono piaghe che non hanno risparmiato niente e nessuno. Milioni di persone, senza distinzione di ceto sociale, professione, etnia, hanno conosciuto lo sterminio sistematico della personalità prima e del corpo poi. Che questo avvenisse tramite le condizioni inumane di vita e di lavoro o tramite la soppressione sistematica e meditata non faceva differenza alcuna. Niente e nessuno potevano dirsi al sicuro da questa assurda follia, nemmeno i calciatori.

Abituati a ben altro tipo di campi, all’affetto del pubblico, all’odore dell’erba e non a quello della morte, all’egoismo dovuto al massimo al tenere la palla tra i piedi qualche secondo in più inseguendo magari un po’ di gloria personale e non certo alla necessità di sopravvivere qualche giorno in più, alcuni di loro si ritrovarono invece ad affrontare una lunga partita per la quale nessuno poteva dirsi allenato.

È la storia, ad esempio, di Carlo Castellani che in quei primi anni ’40 della Empoli calcistica era l’idolo assoluto. Con la maglia azzurra conta ben 145 presenze e 61 gol, un record durato oltre 60 anni e battuto soltanto nel 2011 da Francesco Tavano, altro idolo e simbolo calcistico della cittadina Toscana. Castellani non era quindi uno qualsiasi, era un simbolo, un uomo conosciuto ed amato, magari per questo quando i fascisti bussarono alla sua porta nel Marzo del 1944 chiedendo del padre, li seguì senza troppa paura. Forse pensava solo di dover rispondere a qualche domanda in caserma, forse credeva di dover solo chiarire qualche questione riguardante suo padre. Invece, quando la famiglia non lo vide tornare ed andò in giro in cerca di informazioni, scoprì che il bomber più amato di Empoli era finito su un treno per Firenze e da lì in un vagone bestiame caricato di uomini diretti a Mauthausen. In quella piccola cittadina nel cuore dell’Austria si trovava uno dei campi di concentramento più duri e crudeli, uno sterminio sistematico applicato attraverso il lavoro e condizioni di vita ben oltre il limite dell’umano. Il tempo di sopravvivenza di un uomo nel pieno delle forze era stimato tra i quattro ed i sei mesi: Carlo Castellani lasciò quella partita quasi impossibile dopo cinque, all’inizio dell’Agosto del 1944. Alla sua Empoli che non vide mai tornare il suo cannoniere, non restò che intitolargli lo Stadio cittadino, affinché nessuno potesse mai dimenticare.

A Mauthausen finì anche Ferdinando Valletti, operaio dell’Alfa Romeo che aveva giocato due stagioni nel Milan come centromediano prima di infortunarsi al menisco. Ferdinando fu catturato la sera stessa del grande sciopero del ’44 che mirava a mettere in ginocchio l’occupante tedesco e al quale aveva orgogliosamente partecipato. Da Mauthausen al sottocampo di Gusen, dove il lavoro si svolgeva in asfissianti gallerie sotterranee, la strada era davvero breve. Come l’aspettativa di vita. Fu il calcio a salvarlo, riconosciuto da un kapò fu chiamato a sostituire un giocatore nella squadra delle SS e da lì trasferito ad un lavoro in cucina, decisamente meno usurante. Dalle cucine provò, per quel che gli era possibile, a fornire cibo ai compagni prigionieri ma sopratutto grazie a quel cambio di mansione riuscì a sopravvivere a quella terribile esperienza. Dedicò il resto della sua vita a raccontare, collaborando con l’ANPI e l’ANED, quello che aveva visto e vissuto.

Le loro storie, e quelle di altri sportivi, sono state ricordate dall’ANED al memoriale della Shoah di Milano lo scorso 23 Gennaio, alla presenza di simboli delle due squadre cittadine come Javier Zanetti, Gianni Rivera, Sandro Mazzola, Beppe Bergomi e Daniele Massaro. Perché, oggi più che mai, nessuno possa dimenticare quell’orrore che travolse tutto. Anche i campi di calcio.

Flavio Giordano

 

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