Ibra al Barcellona, Eto’o all’Inter: dieci anni fa lo scambio che ridisegnò, almeno per una stagione, le gerarchie del calcio in Europa.
Non tutti i trasferimenti sono uguali, anche quelli che coinvolgono i grandissimi. Ci sono dei trasferimenti che restano scolpiti nell’immaginario collettivo. Il 27 luglio 2009 si completava probabilmente uno degli scambi più incredibili di questi ultimi anni, se non di sempre, se consideriamo gli attori in gioco: Zlatan Ibrahimovic al Barcellona in cambio di Samuel Eto’o e un conguaglio di 46 milioni di euro. Una cifra monstre per l’epoca, così come i giocatori coinvolti. Uno scambio che ha cambiato le gerarchie del calcio europeo, almeno per una stagione, scrivendo una delle pagine più incredibili della storia del calciomercato. Zlatan, uno dei migliori giocatori al mondo, dominatore assoluto della Serie A, alla corte di Guardiola; dall’altra parte, l’Inter si assicurò il penultimo tassello – l’ultimo in ordine cronologico sarà Sneijder – che l’avrebbe portata a conquistare l’agognata coppa dalle grandi orecchie. Con il senno di poi, sappiamo chi è che ha ‘vinto’ questa trattativa, che all’epoca sembrava aver reso una squadra già straordinaria come il Barça invincibile.
PREMESSE, SPONDA BARCELLONA
Quando nell’estate del 2008 Josep Guardiola, detto “Pep”, venne presentato alla stampa come nuovo allenatore del Barcellona, nessuno sapeva esattamente cosa aspettarsi. Guardando con gli occhi di adesso si può dire con assoluta certezza che nessuno aveva la minima idea di quale rivoluzione copernicana stesse per investire il mondo del calcio. Guardiola era stato un grande giocatore, centrocampista centrale – poi capitano – della squadra che portò in Catalogna la prima, storica Coppa dei Campioni, sconfiggendo in finale la Samp di Vialli e Mancini. Arrivava dalla masía, un termine che se torniamo a quel caldo giorno di luglio di undici anni fa nessuno al di fuori della Spagna conosceva e che adesso, invece, è entrato ufficialmente nel gergo calcistico comune, come falso nueve, manita, triplete e altri ancora. Tutti termini che avremo imparato a conoscere grazie al suo Barcellona, solo che non lo sapevamo ancora. Dalla masía negli ultimi anni erano fuoriusciti dei giocatori molto interessanti, tra cui Xavi e Iniesta già ampiamente titolari con Rijkaard, Gerard Pique, fresco vincitore della Champions League con il Manchester United e tornato finalmente alla base, dopo quattro anni; il capitano dell’Arsenal Cesc Fabregas e Lionel Messi. C’era qualcosa di speciale in quel minuto ragazzino, se ne erano resi conto tutti dalle parti del Camp Nou. Guardiola, però, fu l’unico a spingersi oltre, in lui vide il futuro del Barcellona, al punto che bisognava lasciare alla stella nascente spazio abbastanza per poter brillare. Così, via Deco e Ronaldinho, in fase calante e non più giocatori su cui poter fare affidamento per costruire un nuovo ciclo vincente, e via anche Samuel Eto’o, che non si sposava con l’idea di squadra che Pep aveva in mente. “Stiamo costruendo una squadra e non contiamo su di loro. Poi vediamo cosa succede”, aveva dichiarato.
Il camerunense, in realtà, come sappiamo, non solo restò in squadra per il corso della stagione 2008-09, ma fu enormemente decisivo segnando 36 gol in 52 presenze, tra cui quello che sbloccò la finale di Roma contro il Manchester United. Può un giocatore con 0.80 gol prodotti a partita (gol più assist) risultare non necessario? Nelle testa di Guardiola, sì. Voleva che il Barcellona fosse messicentrico. Idea che aveva visto la luce qualche settimana prima della Finale di Champions, il 2 maggio, la sera in cui il Barcellona andò a Madrid con Messi falso nove, Henry ed Eto’o ai suoi lati, e rifilò sei gol agli acerrimi rivali del Real.
PREMESSE, SPONDA INTER
Se l’arrivo di Guardiola sulla panchina blaugrana non aveva suscitato alcun tipo di reazione da parte della stampa, quello di Mourinho, invece, aveva messo letteralmente a soqquadro il pianeta calcistico italiano. Un allenatore straordinario, ma soprattutto un personaggio così diverso da quelli che eravamo abituati a vedere sulle panchine della A. Il motivo della scelta di Moratti fu chiaro a tutti: vincere il campionato non bastava più. L’ultima Champions nerazzurra era datata 1965, un giorno così lontano nel tempo che i ricordi dei tifosi presenti all’epoca assumevano dei contorni in bianco e nero, come le immagini trasmesse dalla televisione a quei tempi. Nella piscina del Tardini, l’Inter si era confermata campione d’Italia, grazie all’eroe Ibrahimovic, entrato nel secondo tempo e autore della doppietta decisiva. Era lui l’uomo delle grandi occasioni, era lui il giocatore attorno al quale anche Mourinho, dopo Mancini, decise di costruire le fortune dell’Inter. Che continuavano a non arrivare, quantomeno in Europa, perché in Italia non vi era competizione: troppo superiore. Il sogno anche questa volta si era infranto ancor prima di cominciare, gli ottavi di finale per la terza volta consecutiva erano stati la Caporetto nerazzurra, che aveva ceduto all’Old Trafford sotto i colpi di Vidic e Cristiano Ronaldo.
Ma all’alba del ritiro americano dell’estate 2009 si sentiva aria di rivoluzione in casa Inter, con Mourinho che spingeva per avere giocatori importanti. La prima firma fu quella di Lucio, in arrivo a parametro zero dal Bayern Monaco, un centrale di esperienza da affiancare a Samuel. Altri due arrivi provenivano da Genova, Thiago Motta e Diego Milito, tra i migliori giocatori della stagione 2008-09. Lasciava Figo, salutavano Crespo e Cruz.
L’estate nerazzurra però ruotava attorno a Zlatan Ibrahimovic e quelli che i media definivano i suoi “mal di pancia”. Giorno dopo giorno la cessione del fenomeno svedese sembrava essere più vicina, non di certo per volontà del club o dell’allenatore, che lo riteneva ancora centrale nel progetto.
È in questo periodo che affiora a livello mediatico la figura di Mino Raiola, agente del giocatore, e che prima di allora non era così conosciuto dal grande pubblico. Le sue parole non smentivano una possibile partenza, anche se non era ancora chiaro dove.
LO SCAMBIO
Ibrahimovic, in realtà, aveva già le idee chiare. Come lui stesso a posteriori ha rivelato nella sua autobiografia ‘Io, Zlatan’, le aveva già espresse al presidente Moratti in un colloquio privato. La sua non era neanche una richiesta, quanto un desiderio: giocare nel Barcellona.
<<Ascolti>>, gli dissi, <<sono stati anni incredibili e io rimango volentieri, non mi interessa se vengono a cercarmi lo United o l’Arsenal o altri. Però se dovesse farsi vivo il Barça…>>
<<Sì?>>, disse lui.
<<Allora vorrei che almeno lei ci parlasse. Non che mi venda per questa o quella cifra, no, veramente. Questo sta a lei. Ma mi prometta che parlerà con loro>> continuai. Allora lui mi guardò da dietro gli occhiali e con i suoi capelli arruffati, certamente lo capiva, c’era da guadagnarci dei soldi, ma non mi avrebbe lasciato andare volentieri.
<<Ok>>, disse. <<Prometto>>.
Quella promessa che Zlatan strappò a Moratti sapeva già di cessione. Moratti in quel frangente capì che la volontà del giocatore era troppo forte per provare a trattenerlo. Così Raiola iniziò a mediare tra le due parti. Mentre Laporta e Begiristain, allora rispettivamente presidente e direttore sportivo del Barcellona, volavano in Ucraina per trattare Chygrynskiy, su espressa richiesta di Guardiola, vennero raggiunti a telefono dall’agente, che suggerì di fare scalo a Milano e parlare personalmente con Moratti.
Quella sera stessa, trovarono l’accordo. Tutti contenti. Si concluse dunque molto velocemente la trattativa di una telenovela che invece era durata mesi. In quel momento tutti sembravano essere vincitori, ma gli eventi futuri avrebbero dato ragione all’Inter, mentre Ibrahimovic non riuscì mai a inserirsi nel contesto catalano e a stabilire un legame con Guardiola, a cui ancora oggi non riserva mai parole al miele. Profonda, invece, è la stima che nutre ancora oggi nei confronti di Mourinho, di cui rivela un particolare sempre nella sua autobiografia pochi giorni prima della sua partenza per la Spagna:
«Vai al Barça per vincere la Champions, vero?»
«Sì, un po’ forse anche per quello»
«Ma sai, saremo noi a portarcela a casa, non dimenticarlo. Saremo noi»
Aveva ragione lui.
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Michele Di Mauro