“In questa stagione, un cielo di un così delicato e vago azzurro da avere qualcosa di sottile derisione e, certamente, ancor più di tenerezza, presiede alla caduta delle foglie. Né aria, né respiro ovunque. Le foglie sono così leggere che scivolano oblique nella loro discesa, esitando nello spazio che non è vacuo per loro e toccando infine così impercettibilmente il terreno con cui si confonderanno che il gesto è più gentile di un saluto ed ancora più lieve di una lieve carezza.”
(«The Autumn and the fall of leaves»)
Il cielo d’autunno che sorride alle falde dell’inverno, più ricco, intenso, intriso di significato rispetto alla primavera, nel suo ricordo incandescente di transito incantato dalla vita ad una gloria di colori variegata e immensa, un quadro che ritorna nell’ampia poetica di Hilaire Belloc (La Celle–Saint–Cloud, 1870 – Guildford, 1953) [1] come immagine sovrannaturale dell’eternità della vita così come della sua pienezza, fatta di canti e risa e volti amici al fuoco familiare di una casa o di una locanda. È l’arrestarsi durante il continuo Viaggio, esteriore o interiore, che costituisce l’essenza della vita, per poi riprendere, solitario, il cammino, sino a giungere, ancora una volta, a godere del piacere dell’amicizia, che splende, sacra e brillante come una notte di stelle o un mattino dorato.
Nato in Francia da padre francese e madre inglese, trascorre la prima infanzia nella terra natale, sino a quando, a soli due anni, rimane orfano di padre e la famiglia si trasferisce in Inghilterra. Frequenta le scuole superiori e si rafferma nel Cattolicesimo, che professerà per tutta la vita. Nel 1890 conosce Elodie Hogan, una ragazza irlandese emigrata in California che sta compiendo un pellegrinaggio a Roma e se innamora. Quando Elodie torna in patria, Belloc affronta la traversata transoceanica e, sbarcato a New York, percorre l’America da costa a costa guadagnandosi i soldi per il viaggio con piccoli lavori, e giocando a carte nei saloon. La ragazza, tuttavia, è ancora incerta sul suo futuro e Belloc torna in Inghilterra. Di nuovo attratto dalla sua seconda patria, presta il servizio militare in Francia, a Toul. Si iscrive quindi all’università di Oxford, dove si laurea brillantemente in Storia. Tenta di rimanere nell’università con un dottorato di ricerca che, tuttavia, gli viene negato, forse a causa della sua fede. Nel frattempo, riceve una lettera dall’amata Elodie ed ancora una volta attraversa l’oceano, questa volta guadagnandosi il denaro per raggiungere la California tenendo conferenze di storia nelle principali città. Elodie ed Hilaire si fidanzano e di lì a poco si sposano, ritornando poi a vivere in Inghilterra, nel Sussex.
Belloc si dedica al giornalismo e, ben presto, nel 1900, incontra Gilbert K. Chesterton, con cui stringe un’amicizia destinata a durare una vita e ad essere a fondamento di una proficua, continua, ininterrotta collaborazione. Entrambi lavorano al foglio «The Eye Witness», fondato dal fratello di Gilbert, Cecil Chesterton. Belloc e G. K. Chesterton s’impegnano a fondo nel giornalismo e nella politica, dapprima schierandosi contro la guerra d’aggressione anglo–boera (ritenendo che il buon diritto stia dalla parte dei Boeri), quindi impegnandosi a smascherare le corruzioni e il malcostume nella pubblica amministrazione. Non senza pagarne il prezzo: Cecil Chesterton, denunciato per diffamazione, sarà condannato ad una forte ammenda. Il sodalizio tra il saldo, quadrato, energico Belloc ed il sognatore G. K. Chesterton, sarà salutato ironicamente con il termine chesterbelloc dall’avversario di sempre, George Bernard Shaw.
Quindi inizia una produzione vastissima di saggi storici, romanzi, poesie, racconti, che conterà infine circa centocinquanta opere tra le più varie. E tuttavia, sempre, il viaggio sembra richiamarlo a sé. Del 1902 è «La via di Roma», resoconto di un pellegrinaggio, fatto per gran parte a piedi, da Toul a Roma per assolvere a un voto. Belloc vi si lancia con entusiasmo giovanile, impetuoso, allegro; descrive e conosce ogni angolo di Francia, di Svizzera, d’Italia lungo il suo cammino, guadando fiumi, scalando montagne, rischiando di morire assiderato sui passi alpini, senz’altro bagaglio che una bisaccia e senz’altro riparo dalle intemperie che un abito logoro. Eppure, né il dolore né la stanchezza né la distanza contaminano la freschezza della gioia che avverte dinanzi a panorami inesplorati, alle soste nelle taverne alla luce del fuoco, nelle notti della Lorena, ai canti intonati in compagnia o da solo, in mezzo al bosco, in una libertà senza confini.
“Si vedeva il cielo, al di là del limite del mondo, sempre più puro man mano che la volta saliva. Ma in cima – come una cintura in quell’empireo – si svolgevano vette e campi e degli aghi d’intenso ghiaccio, lontani, lontani dal mondo. Col cielo al di sotto e il cielo al di sopra, come una legione invincibile, brillavano come rivestiti della corazza degli invincibili eserciti del Cielo. (…) Queste, le grandi Alpi, viste così, ci ricollegano in qualche modo con la nostra immortalità.”
(«La via di Roma»)
La narrazione termina con l’ingresso in Roma; il voto, il viaggio sono la vera meta. Quella che esplora è l’Europa cristiana, che affonda le proprie radici in quel Medioevo che ne ha visto nascere la coscienza e che ha lungamente cesellato, durante mille anni, l’antica civiltà romana sino ad epurarla, al suo termine, dalla schiavitù. “Alla fine del Medioevo le società della cristianità occidentale, Inghilterra compresa, erano finalmente libere(…) Questa condizione ottimale che si era raggiunta dopo molti secoli di sviluppo del cristianesimo, e nella quale l’antica istituzione della schiavitù era stata finalmente eliminata dalla cristianità, non sopravvisse ovunque” scrive ne «Lo Stato servile», saggio storico, politico ed economico in cui, con ferrea lucidità, descrive lo stato capitalistico che si va formando come “servile”, ossia fondato sulla schiavitù del proletariato, asservito alla minoritaria ma potente casta dei capitalisti. Le condizioni del proletariato non possono essere semplicemente migliorate con una legislazione che lo garantisca, in quanto lo Stato è, ormai, meno forte dell’economia e, soprattutto, perché non è in gioco solo il benessere ma anche la libertà e la dignità umana. Solo con una più equa distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione si giungerà ad una società veramente libera: questo il principio del distributismo, emerso al termine del Medioevo, che Chesterton e Belloc tentano di diffondere e che, oggi, è ripreso seriamente in considerazione da più di un economista.
Eletto due volte in Parlamento, nel partito Liberale prima e come indipendente poi, benvoluto dagli elettori del suo collegio, si scontra con una realtà difficile se non impossibile da cambiare dall’interno. Si dedica quindi completamente all’attività letteraria e giornalistica.
La moglie, l’amata Elodie, muore nel 1914. Per Belloc sarà un trauma che segnerà l’intera vita.
Nel 1920 pubblica «L’Europa e la Fede», qui la scrittura procede vigorosa, colta, squadrata come una pietra e della stessa imponenza; il formarsi di una coscienza europea si delinea sempre più disegnato dalla fede cristiana e, più oltre, precisamente dalla fede cattolica: “La Fede è l’Europa e l’Europa è la Fede.”
La difesa di Belloc e Chesterton del Medioevo non si nasconde in una vaga fantasticheria poetica. È invece la consapevolezza concreta, attuale, precisa di una realtà sociale, economica e spirituale formatasi lentamente e difficoltosamente durante i mille anni in cui l’Europa è stata cristiana, e la lucida coscienza che tale forma, nelle sue linee generali, rappresenterebbe la vera rinascita della società moderna. Se la rivoluzione industriale avesse incontrato questa realtà sociale, ne sarebbero derivati infiniti vantaggi, conclude Belloc.
Profetico, scritto con una schiettezza acuta e a tratti ruvida, «Gli Ebrei» del 1922 è un libro in cui Belloc prevede sia la persecuzione degli Ebrei, sia, con una capacità di analisi storica stupefacente, la situazione di conflitto armato che la creazione di uno Stato ebraico avrebbe portato – soprattutto in considerazione delle altre forze geopolitiche in campo. Belloc e Chesterton condanneranno con una lucida, costante, tenace onestà intellettuale le leggi razziali naziste.
Belloc pubblica, tra gli altri, anche il saggio storico in forma di romanzo breve «Giovanna d’Arco», uno dei primi a restituire la figura di Giovanna alla realtà storica, dopo il lavoro di Jules Quicherat, che ha reso di nuovo accessibili i documenti originali. È in una prosa dal sapore antico, severa eppure talvolta librantesi in squarci leggeri e splendenti, che Belloc racconta la vita della Santa, nella sua incredibile semplicità.
Maestro di atmosfere e di stili, Belloc adegua di volta in volta non solo la lingua che maneggia con una versatilità innata ma anche, e soprattutto, il suo spirito all’argomento della sua opera.
Nel 1936, Hilaire Belloc, che nel 1918 aveva perso il figlio primogenito, Louis, nel corso della Grande Guerra, deve dire addio all’amico di una vita, G. K. Chesterton e, dopo quattro anni, anche al figlio più giovane, Peter, ucciso nella Seconda Guerra Mondiale. Nonostante questi lutti, non si arrende; anzi, continua a lottare ed a credere in quella gioia che, più tardi, Tolkien definirà “acuta come un dolore”.
Salutato come uno dei maggiori autori inglesi del XX secolo, Hilaire Belloc, dopo una lunga malattia, muore a Guildford nel luglio 1953.
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Note: 1) Nome completo Joseph Hilaire Pierre René Belloc.
Davide Gorga