Schiacchiante vittoria del No al referendum sull’accordo per il salvataggio Alitalia: adesso all’orizzonte sei mesi di amministrazione straordinaria e il rischio fallimento.
Non sono bastate le trattative a oltranza, l’intervento del Governo e gli accordi notturni tra i vertici di Alitalia e i sindacati: il piano di salvataggio della ex compagnia aerea di bandiera italiana si è arrestato di fronte alla netta vittoria del No (affermatosi con il 67% delle preferenze) al referendum indetto tra i lavoratori dell’azienda.
Tra i 10.022 dipendenti di Alitalia che si sono recati al voto, in 6.816 hanno espresso il loro dissenso verso l’accordo, 3.206 sono stati invece i Sì. Eloquente la ripartizione dei voti: il No ha stravinto tra il personale di volo, che più di tutti avrebbe sofferto gli esuberi previsti dall’accordo, mentre tra il personale di terra e amministrativo ha prevalso di poco il Sì.
Il piano, fortemente ritoccato grazie all’intervento del governo italiano rispetto alle iniziali proposte dei vertici dell’azienda, prevedeva 980 esuberi (rispetto ai 1338 iniziali) e un taglio agli stipendi dell’8% (rispetto al 30% del primo accordo). In cambio l’azienda avrebbe provveduto a una ricapitalizzazione da circa 2 miliardi.
L’accordo sembrava aver soddisfatto tutte le parti in causa, tanto che sia i maggiori sindacati che i dirigenti aziendali invitavano i dipendenti a votare Sì per salvare la compagnia. Ma a respingere il piano sono stati proprio i lavoratori che avrebbero dovuto subirne le conseguenze, certificando quindi una rottura sempre più evidente con le sigle sindacali che dovrebbero rappresentarli.
Per la compagnia aerea adesso il futuro è incerto. Il ministro per lo Sviluppo Economico Carlo Calenda ha confermato che l’Unione Europea ha dato il via libera alla possibilità di un prestito-ponte di circa 300-400 milioni da parte dello Stato per assicurare i 6 mesi di gestione straordinaria, dopodiché si andrà alla ricerca di un acquirente.
Il rischio, nel caso in cui non si riesca a trovare un nuovo investitore, è quello della liquidazione, che porterebbe migliaia di lavoratori in cassa integrazione e la cessione “a spezzatino” delle azioni. Ipotesi che vorrebbe evitare il ministro dei Trasporti Graziano Delrio, che al TG1 ha dichiarato: «Penso che (Alitalia, ndr) abbia le caratteristiche, la potenzialità per essere venduta insieme e per trovare un nuovo progetto industriale». Riguardo al ruolo del governo nella questione, Delrio ha affermato: «Cercheremo di tutelare nel migliore dei modi tre cose: il bene del Paese, quello dei lavoratori e dei contribuenti».
Più preoccupato invece il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che ha ricordato come oltre ai 12.500 lavoratori, siano a rischio anche gli 8.000 posti di lavoro dell’indotto. Ha aggiunto, inoltre, come il Fondo del trasporto aereo sia adeguato a garantire ammortizzatori sociali solo ai 980 lavoratori previsti dal pre-accordo, «ma se il numero è più alto il fondo non avrà risorse per farlo e quindi ci saranno gli ammortizzatori ordinari».
Negli ultimi giorni era serpeggiata anche la possibilità di un intervento dello Stato in direzione di una nazionalizzazione della compagnia, ipotesi però smentita proprio dal premier Gentiloni, secondo il quale «non ci sono le condizioni per una nazionalizzazione di Alitalia». Il presidente del Consiglio si è poi detto «deluso per il fatto che l’opportunità dell’accordo tra aziende e sindacati non sia stata colta».
L’ipotesi del salvataggio pubblico va quindi accantonata, insieme alle voci che indicavano Lufthansa come una possibile acquirente. È arrivata poche ore fa, infatti, la smentita da parte dei vertici della compagnia tedesca, che hanno dichiarato di non avere intenzione di acquistare le quote di Alitalia.
Le alternative restano quindi due: fallimento o cessione. Un destino appeso ad un filo, quello di Alitalia e delle migliaia di lavoratori che rischiano di pagare sulla propria pelle anni di piani industriali fallimentari e di errori di gestione, di cui nessuno però chiederà conto.
Simone Martuscelli