Ancora Spagna. Ancora Kiev. Quella serata amara del giugno 2012 la ricordiamo tutti. La Grande y Felicísima Armada non aveva avuto alcuna pietà di un’Italia acciaccata, stanca e non all’altezza, affondando qualunque tentativo di contrattacco che gli uomini di Prandelli provavano a mettere in atto. La favola era diventata incubo e il percorso straordinario degli Azzurri aveva trovato un muro invalicabile: le Furie Rosse. Rosso come il nome originario dello stadio di Kiev che, sei anni dopo quel poker, nella notte di sabato ha incoronato ancora gli spagnoli come dominatori del continente europeo. Il Real Madrid ha vinto di nuovo la Champions League, la terza consecutiva e la quarta delle ultime cinque edizioni. E ha vinto ancora una volta mettendo in ginocchio gli avversari grazie alla maestosità di cui la squadra della capitale dispone. Gli errori di Karius hanno certamente aiutato ma il gol mostruoso con cui Gareth Bale ha firmato il 2-1 sapeva di k.o. tecnico, esattamente come la rovesciata di Ronaldo aveva messo al tappeto la Juventus nella partita dello Stadium. Quando ti trovi di fronte una squadra così fuori dal comune, gesti – o gesta? – del genere hanno una valenza superiore al semplice nome che viene trascritto nel tabellino dei marcatori, è una testimonianza semplice, lapidaria della forza brutale di qualcuno contro cui non hai chance di vittoria. Soltanto una squadra come il Real Madrid può permettersi di avere un Ronaldo deludente in una finale, tenere fuori il gallese dall’inizio e, comunque, riuscire a portare a casa l’obiettivo.
Se, però, il 4-0 ai danni dell’Italia segnava la fine del ciclo a livello di nazionale, iniziato quattro anni prima contro la Germania e che aveva avuto il suo culmine nella vittoria del Mondiale in Sudafrica, l’egemonia dei club spagnoli non sembrerebbe essere in discussione, per adesso. Dal 2014 ad oggi Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid e Siviglia si sono aggiudicati 18 dei 19 trofei totali a livello continentale ed internazionale. Solo il Manchester United di Mourinho (Europa League 2016-17) è riuscito ad interrompere questo gioco a quattro che ha praticamente escluso tutti gli altri. Se guardiamo all’intera decade, però, ci accorgiamo di quanto il dominio in realtà sia ancora più netto: 7 Champions League, 6 Europa League, 9 Supercoppe Europee (conteggiata già la prossima che sarà uno spareggio madrileno), 6 Mondiali per Club. Per un totale di 28 trofei su 43 totali messi in palio. Per far comprendere la distanza con gli altri paesi, vi basti pensare che il secondo che ha raccolto più trofei, l’Inghilterra, ne ha portati a casa a malapena 5 (Champions League 2008 e 2012, Europa League 2012 e 2017, Mondiale per Club 2008). E l’Italia? Noi restiamo aggrappati ai due trofei che ha vinto l’Inter nel 2010 (Champions e Mondiale).
Ma il dominio spagnolo non si ferma soltanto al calcio. Se guardiamo un po’ oltre, ci possiamo rendere conto come i colori giallorossi siano ovunque, in tutti i principali sport mondiali. Nel basket, il Real Madrid ha appena vinto l’Eurolega contro il Fenerbahçe, a tre anni di distanza da quella vinta contro l’Olympiakos. A livello di nazionali, la Spagna ha vinto tre delle ultime cinque edizioni degli Europei, e quando non ha vinto è comunque arrivata a podio. A livello internazionale poi, sia mondiali che Olimpiadi, bisogna fare i conti con lo strapotere americano ma sono comunque arrivate due medaglie d’argento e una di bronzo nelle Olimpiadi di Pechino, Londra e Rio. In MotoGp gli ultimi sei campionati se li sono divisi Jorge Lorenzo e Marc Marquez, mentre in Formula 1 gli ultimi successi sono fermi a quelli di Alonso. Nel tennis basta citare il nome di Rafa Nadal, uno dei più grandi atleti della storia e che proprio recentemente si è confermato, qualora ve ne fosse bisogno, Rey incontrastato della terra rossa. Stessa regola nel ciclismo, in cui basta menzionare Alberto Contador.
Insomma, a tutte le latitudini lo sport spagnolo sembra aver avuto una generazione di atleti che hanno, in un modo o nell’altro, segnato la storia. E anche se resta la macchia pesante dell’episodio Fuentes, di cui non conosceremo mai realmente la verità, la Spagna continua ad inanellare successi su successi.
Tornando a noi, a livello di club calcistici vi sono due motivi principali che hanno permesso alle spagnole, ma in particolare modo a Real e Barcellona, di oscurare il Sole. Sarebbe anche superfluo dover specificare che siano Ronaldo e Messi ma lo facciamo per dover di cronaca.
Nel novembre 2005 la Nike svelava una nuova campagna marketing con un cartellone alto 34 metri per 64 di larghezza nelle vicinanze della Quicken Loans Arena, la casa dei Cleveland Cavaliers. Su questo telone enorme con sfondo nero visibile anche dallo spazio vi era un giovane LeBron James intento a schiacciare e il solito swoosh simbolo dell’azienda dell’Oregon e una scritta: We are all witnesses. LeBron James era nella lega da poco più di un anno e benché avesse fatto vedere di essere un giocatore dal futuro senza dubbio eccezionale, la campagna sembrava molto prematura. Sembrava, appunto. Soli due anni dopo, il 5 giugno 2007, l’azienda statunitense “fu costretta” a lanciare una campagna integrativa per celebrare l’arrivo alle Finali NBA. «La campagna Witness è un tributo a James e riconosce le legioni di fan di tutto il mondo che sono testimoni della sua grandezza, della sua forza, del suo atletismo e del suo incredibile modo di giocare», si leggeva sul sito ufficiale.
We are all witnesses. Siamo tutti testimoni. Testimoni oculari di qualcosa senza precedenti. Viviamo – per nostra fortuna – un periodo d’oro dello sport a tutte le latitudini, in cui atleti straordinari hanno scritto (e stanno ancora scrivendo) pagine, libri ed enciclopedie intere di grandezza sportiva. Il già citato LeBron James, Roger Federer, Tom Brady, Allyson Felix, Floyd Mayweather, Valentino Rossi, Tiger Woods, Lewis Hamilton, Michael Phelps, Veronica Campbell-Brown, Usain Bolt, Kobe Bryant, Serena Williams, Rafael Nadal, Anthony Joshua ma anche i giovanissimi Katie Ledecky e Marc Marquez. Ovunque ci voltiamo, qualunque cosa guardiamo, qualcuno sta scrivendo a suo modo la storia. Un conto, però, sono i trofei vinti, i record infranti e la longevità, un altro è la capacità di oscurare una generazione intera di atleti altrettanto grandiosi in uno sport così globale come il calcio.
Sono ormai dieci anni che il calcio europeo è colonizzato da Cristiano Ronaldo e Lionel Messi. E nel corso di questa decade si sono spartiti tutto: la gloria, i trofei nazionali e continentali, le luci della ribalta. Anche i Palloni d’Oro. Non esiste confronto che regga, non esiste parola che possa in qualche modo dare giustizia al valore di questi due giocatori meravigliosi e devastanti. Sono così ridicolmente – passatemi il termine – superiori, che hanno reso i loro contemporanei degli onesti mestieranti del pallone. Anche la straordinarietà di uno come Zlatan Ibrahimovic, che dal punto di vista di chi scrive è uno degli atleti più dominanti che si siano mai visti sulla faccia del pianeta, è passata quasi sotto traccia come se appartenesse ad una razza diversa rispetto a quei due. E forse è così.
Palloni d’Oro, molti. Trofei, tantissimi. Gol, come se piovessero. Dal 2008 ad oggi il duopolio Ronaldo – Messi ha fatto retrocedere in secondo piano qualunque altro club che non fosse il loro. Non è mai stato facile affrontare Real Madrid( /United) e Barcellona ma con il portoghese e l’argentino la difficoltà è schizzata alle stelle. Nelle 1038 partite disputate nelle ultime 10 stagioni sono arrivate solo 109 sconfitte. In media, dunque, 9.5 gare perse stagionali per le loro squadre quando i due sono sul terreno di gioco. E non a testa, in totale. Un numero impressionante che si mette in coda agli altri, quelli che non solo testimoniano l’unicità di questi due fenomeni assoluti ma la capacità di rendere imbattibili, o quasi, le proprie compagini.
Adesso entrambi voleranno in Russia per tentare di aggiungere l’unica oliva che manca ancora in un martini unico. E se Ronaldo un obiettivo straordinario con la propria nazionale l’ha già raggiunto, Leo cerca ancora di togliersi di dosso l’odore delle finali perse – le uniche nella sua carriera insieme a quella di Copa del Rey del 2014 – tra Copa America e Mondiale scorso. Ha letteralmente trascinato l’Argentina al Mondiale, una squadra dal potenziale offensivo enorme che, però, senza di lui sembra regredire fatalmente.
Comunque andrà, però, sa che ci sarà la sua Barcellona ad aspettarlo, accoglierlo e coccolarlo. La stessa Barcellona che lui ha reso quel che è oggi. Più di quanto siano riusciti a fare Maradona, Iniesta, Ronaldinho e Rivaldo. Se oggi il Barça è alla pari del Real, anche da un punto di vista economico, il motivo è senza dubbio lui. E se il Real è riuscito a reggere l’urto della Pulce è perché si è assicurato le prestazioni di Cristiano. E la sensazione che si avverte è che finché ci saranno loro, gli altri – noi compresi – non troveranno spazio a sufficienza.
Michele Di Mauro