Augusto Di Meo è il testimone oculare dell’omicidio di don Giuseppe Diana, ma non è riconosciuto vittima della criminalità organizzata ai sensi della l.302/1990, né tanto meno testimone di giustizia dallo Stato.
L’unico riconoscimento istituzionale è pervenuto a Di Meo nel 2014 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che l’ha nominato “Ufficiale al merito della Repubblica d’Italia”. «Mi sento abbandonato da quelle stesse Istituzioni con cui, per dovere morale e sociale, collaboro. Più che un supporto allo Stato, sembra sia un intralcio.» ha affermato il noto e coraggioso fotografo di Casal di Principe. Non l’hanno, però, abbandonato i cittadini: il Comitato don Peppe Diana, le reti civiche e le associazioni che stanno diffondendo in queste ore una petizione in suo sostegno.
Don Peppe Diana morì a Casal di Principe il 19 marzo del 1994 ucciso dai colpi d’arma da fuoco da Giuseppe Quadrano, esponente dell’omonimo clan, che verrà arrestato dall’Interpol l’anno successivo a Valencia dove si era rifugiato. Quadrano sparò a don Diana puntandogli la pistola in faccia presso la sagrestia della sua parrocchia non appena il sacerdote ebbe indossato i paramenti per la celebrazione liturgica.
Quella mattina del 19 marzo si trovava in sagrestia anche Augusto Di Meo, stretto collaboratore e fedele amico del parroco: l’omicidio di don Peppe Diana si consumò davanti ai suoi occhi ed è per questo che egli è l’unico testimone effettivo. Decisiva fu la sua testimonianza al processo. Ecco le parole di Di Meo in merito alla triste vicenda: «Dopo quel tragico episodio mi trasferii in Umbria, dove aprii un negozietto e continuai a dedicarmi alla fotografia, spinto dalla paura e dalla necessità di tutelare la mia famiglia. Tornai nel 1997, in vista del processo, mosso invece dal senso del dovere verso don Peppe e tutti coloro che lottavano contro la criminalità organizzata. Quando testimoniai per la prima volta al processo contro Quadrano, non avevo scorta né protezione; mi recai presso il Tribunale di SMCV semplicemente a bordo della mia auto, accompagnato solo da don Carlo Aversano, che da anni mi sostiene in tutta questa vicenda.»
Se la l.302/1990 per le vittime di giustizia fosse stata applicata gli stato sarebbero riconosciuti i danni psichici e morali, sia passati che attuali, derivanti da una prolungata quotidianità all’insegna di stress e tensioni per se stesso e i suoi cari. Di Meo avrebbe diritto ad un sussidio economico a titolo di risarcimento per i danni già subiti e garanzie di maggiori cautele, ma ad ad oggi non è stato fatto nulla dalle istituzione per garantirgli tutto ciò.
In questo scenario tanto meno venne applicata la l.45/2001, norma che detta le disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia con efficacia irretroattiva. La tensione quotidiana che Di Meo è stato costretto a sopportare in nome del suo senso civico e morale è stata talmente forte da indurlo alla terapia e all’assunzione di farmaci.
La questione finì anche nelle aule di Tribunale: dal processo di primo grado, fino al T.A.R. e al Consiglio di Stato di Meo passò molto tempo in corte.
Lo scorso marzo la Camera ha approvato in prima lettura un nuovo testo legislativo, incentrato sul rafforzamento delle misure di sorveglianza e protezione verso i testimoni di giustizia. Nel disegno di legge le disposizioni valide per il testimone di giustizia vengono differenziate in misura ancora più netta rispetto a quelle efficaci sul collaboratore di giustizia: a differenza di quest’ultimo -il cd. ‘pentito’– , il testimone non ha concorso al disegno criminoso né ha commesso il reato.
Augusto Di Meo ha assistito all’uccisione di don Giuseppe Diana, ha guardato negli occhi Quadrano, udito le parole e le urla del momento, carpito la dignità del primo e la crudeltà del secondo, ha sempre sostenuto la battaglia di legalità della vittima, contrastato le attività criminali del colpevole e quelli come lui.
Augusto Di Meo e i suoi famigliari sono frequentemente bersaglio di minacce e ritorsioni, ma nonostante ciò egli non è riconosciuto né vittima di criminalità organizzata né testimone di giustizia. Le istituzioni devono delle risposte a Di Meo, ai suoi famigliari, ai parenti di don Peppe Diana e a chiunque coraggiosamente si batte, giorno dopo giorno, per rendere questa terra un posto migliore, a chi non tace per amore del suo popolo.
Tina Raucci