Nel contesto della mostra Windows from Gaza, che sarà a Napoli dal 24 maggio al 6 giugno 2017, Libero Pensiero News ha incontrato e intervistato Meri Calvelli, membro della ONLUS Fotografi Senza Frontiere e del Centro Italiano di Scambio Culturale Vik.
Qual è la tua esperienza nei Territori Occupati?
«Io lavoro con la cooperazione italiana, in particolare lavoro con una ONG, ACS (Associazione Cooperazione e Solidarietà), una delle numerose organizzazioni italiane che lavorano nei Territori Palestinesi della West Bank e della Striscia di Gaza. I settori sono diversi, ACS in particolare lavora nel settore dell’agricoltura, quindi facciamo molti progetti con i contadini a Gaza e nella West Bank. Da dopo la chiusura della Striscia di Gaza, o meglio la doppia chiusura, l’occupazione c’è da entrambe le parti ma Gaza è doppiamente isolata, e dopo l’uccisione di Vittorio Arrigoni nel 2011, abbiamo deciso di aprire un centro di scambi culturali. Gli scambi culturali sono un’attività che nel settore della cultura veramente in pochi prendono in considerazione e, soprattutto, non viene finanziata.»
Perché è così importante lo scambio culturale per chi vive nella realtà della Striscia di Gaza?
«Sembra che, sia nella Striscia di Gaza ma in generale nei territori palestinesi, vivano soltanto di guerra e occupazione, che purtroppo hanno sulla testa da troppi anni, mentre tutta quella che è la loro identità e la loro necessità di condividere la propria cultura, di dialogare col mondo esterno, non vengono affatto prese in considerazione. Non solo gli artisti soffrono dell’impossibilità di confrontarsi con altri artisti, di assistere a mostre internazionali e di spostarsi, ma la società civile tutta, e soprattutto le generazioni nate dopo il 2007, cresce in un ambiente chiuso, privo di qualsiasi contatto col mondo esterno. Non esiste nessun dialogo che possa realmente far capire che cosa pensa la gente lì dentro.»
Dunque, di cosa si occupa il centro nello specifico?
«Il centro svolge un ruolo di coordinamento e una delle sue attività principali è quella di permettere a formatori e giovani, provenienti dall’Italia e dall’Europa, di accedere alla Striscia di Gaza. Anche solo entrare nella Striscia è un meccanismo complicato, un meccanismo che deve venire a contatto con i militari che in questo momento occupano le frontiere. Noi in qualche modo facilitiamo e coordiniamo questi ingressi finalizzati alla creazione di attività culturali. Dentro questa dicitura c’è di tutto, dall’arte allo sport a qualsiasi progetto di formazione, e anche corsi di lingua italiana: per i bambini di Gaza, che spesso non hanno mai visto uno straniero e che vivono in condizioni di vita difficili, è già sufficiente incontrare persone diverse.
L’altro obiettivo è far uscire i giovani da Gaza verso l’esterno, e quindi verso l’Italia. Ultimamente è veramente difficile uscire dalla Striscia, sigillata sia dalla parte israeliana, ma anche, e soprattutto, dalla parte egiziana. Tuttavia negli ultimi anni abbiamo portato diversi nuclei dei settori dello sport e della cultura a interagire e a formarsi qui in Italia. Rimangono per un periodo e poi ritornano con un bagaglio notevole di conoscenza da condividere con chi è rimasto.»
Il Centro Vik dispone di una sede qui in Italia, in che modo finanziate gli scambi?
«Il centro non riceve alcun finanziamento dalle istituzioni, ma vive della collaborazione con associazioni e ONG. Infatti, sono proprio le associazioni ad occuparsi dei programmi di scambio, come in questo caso per la mostra “Windows from Gaza”. Insieme a Fotografi Senza Frontiere abbiamo portato le tele di alcuni artisti palestinesi qui in Italia, dato che gli autori, purtroppo, non hanno avuto la possibilità di spostarsi. Bisogna dire che dentro la Striscia ci sono dei talenti che nessuno conosce, per questo ci sembra fondamentale continuare a dar voce alla realtà della vita a Gaza. Guerre e attacchi, seppur ci sono, non rappresentano la vita quotidiana delle persone che vivono nella Striscia di Gaza. Quest’ultima, al contrario, è espressione della resistenza di questa popolazione attraverso la cultura e attraverso l’arte.»
Che cosa pensi del nuovo documento di Hamas e della chiusura dell’Autorità Palestinese? Credi che questa situazione politica influisca sulla vita degli abitanti della Striscia?
«Per quanto riguarda il nuovo statuto di Hamas, direi che ha una grande importanza. Per quanto riguarda invece i cambiamenti in toto della situazione, è ancora un po’ presto per dirlo, però senza dubbio è un passo avanti: riconoscere i confini del ’67, per quanto ci si voglia girare intorno, significa riconoscere che al di là di quei confini c’è un altro Stato. Questo passo, fino ad adesso, non era ancora mai stato fatto dal partito di Hamas. Se questo poi si traduca, effettivamente, nella possibilità di avere lo Stato di Palestina non dipende da loro.
Per quanto riguarda i rapporti con l’autorità della West Bank, bisogna dire che la popolazione chiede la riconciliazione da sempre, cioè da quando Hamas ha vinto le elezioni e si è separato dalla Cisgiordania. Dal mio punto di vista è stato un errore non aver permesso loro di governare: Hamas ha vinto delle elezioni fortemente volute dalla comunità internazionale, e in particolare dall’Unione Europea, quindi, se la democrazia è democrazia, dovevano farli governare. Questo non è successo, ma, indipendentemente da quanto è accaduto dopo, le popolazioni di Gaza e Cisgiordania hanno sempre voluto la riconciliazione. Questo è un passaggio forte, sicuramente difficile, ma che deve arrivare, perché abbiamo visto quali sono i risultati di un popolo diviso: l’occupazione continua da ambo le parti. Il problema è che per il momento non c’è questa volontà politica, e lo dimostrano le prese di posizione dell’Autorità Palestinese che in qualche modo, passando come un carro armato sopra tutte queste piccole aperture, ha tolto la possibilità di erogare corrente elettrica, spesa della quale dovevano farsi carico sia dentro la Striscia che fuori. Addirittura l’unica erogazione di corrente elettrica adesso arriva da Israele, ironia della sorte. Le dichiarazioni dell’AP, che in preda ai meccanismi del gioco politico ha abbandonato la popolazione di Gaza, sono fonte di grande depressione e sfiducia per gli abitanti della Striscia. Il popolo di Gaza si sente popolo palestinese e ha paura di essere lasciato solo. Il desiderio comune è dunque non solo la fine dell’occupazione, ma anche la riconciliazione con i palestinesi che vivono nella West Bank.»
Intervista a cura di Claudia Tatangelo