Dochakuka si diceva da qualche parte in Giappone nei primi anni ’80, per poi passare al più evocativo ‘glocalization’. Fu un sociologo, Roland Robertson, a coniare questo che di primo impatto pare un termine che fa il verso al fenomeno più sentito e conosciuto degli ultimi decenni, la globalizzazione. Con glocalizzazione, invece, si vuol descrivere il modo attraverso cui pratiche diffuse a livello nazionale e internazionale abbiano finito per attecchire e modificare contesti locali. Nello specifico, lo sport ha contribuito molto a radicare tra i popoli un comune sentimento di identità, vessato il più delle volte dagli equilibri storici e militari, diventando così un oggetto che facesse convergere i più nobili desideri di riscatto di alcuni gruppi di persone.

Al giorno d’oggi, pare ovvio considerarsi parte di una Nazione e/o di una specifica comunità, spesso dimenticando che i precisi equilibri socio culturali in cui viviamo sono frutto di un passato difficile. È il caso soprattutto dell’Europa Occidentale e del Nuovo Continente, che da quest’ultima ha preso forma e ispirazione fondendo tradizioni, usi e costumi. Un tempo si faceva fatica addirittura a riconoscersi come parte di una comunità politica che andasse oltre i confini del proprio paese natio, tant’è che si è fomentato tra gli studiosi il concetto delle cosiddette comunità immaginate.

Non potendo fare affidamento sulla percezione di appartenenza a un medesimo gruppo che sia basata sull’interazione faccia a faccia tra i suoi membri, il senso di appartenenza a una comune identità, e la coesione interna della comunità, devono fondarsi necessariamente sull’immaginazione delle persone che permette loro di percepirsi come membri di quel gruppo. [Wikipedia]

Un preludio, questo, che ci porta a considerare in chiave diversa il ruolo che lo sport ha rivestito in passato, e ciò che oggi rappresenta silenziosamente. Un insieme di simboli, viventi e non, che hanno radicato grosse coesioni tra popoli e addirittura modificato rapporti nazionali e internazionali. Negli ultimi due secoli lo sport ha preso forma in ogni salsa, e ha praticamente viaggiato al passo con la strategia militare nazionalistica. Non è un caso che il culto della pratica sportiva abbia avuto maggiori attenzioni tra gli Stati a trazione totalitarista che hanno rigurgitato in essa la necessità di affermarsi e quindi un enorme spirito di competizione. Uno stadio, ad esempio, oltre che un’infrastruttura, contribuiva a consolidare il sentimento di appartenenza a un gruppo sociale, a radunare persone di diversa estrazione e ad abbattere le barriere architettoniche.

George Orwell disse che “lo sport è una guerra senza gli spari”, mentre il fondatore delle moderne olimpiadi Pierre De Coubertin, durante la belle epoque, avrebbe difeso il ruolo pacificatore e culturale delle competizioni sportive, che permettevano scambi e incontri tra i diversi popoli. Come detto all’inizio, tuttavia, la diffusione dello sport (e con esso del tifo) parte dalla realtà più piccole.

In Irlanda il “foot-ball”, precursore della moderna versione attribuita agli inglesi, fu bandito dal Sunday Observance Act of 1695, che impose la sanzione di uno scellino a chi fosse stato sorpreso a praticare lo sport. Lo sport canadese per eccellenza è l’hockey su ghiaccio, che è stato principalmente frutto di un lascito degli immigrati provenienti dalla penisola britannica. Oggi ricordiamo l’hockey, e probabilmente suonerà nuovo alle nostre orecchie sapere dello shinty scozzese, o dell’hurling irlandese, che ne sono gli antenati. In Canada, ancora, altro sport caratteristico è il lacrosse, nient’altro che una tradizione degli antichi nativi americani usata per risolvere dispute tra le tribù. In Brasile, invece, le comunità oppresse di non bianchi trovarono nel calcio un modo per rispondere alla supremazia europea, tanto che dagli anni Venti in poi del secolo scorso la loro bravura gli fece valere il diritto di entrare nelle competizioni internazionali.

E se da un lato giocare a calcio liberava la dignità degli oppressi d’oltreoceano, in Europa e in Italia le competizioni più sentite divennero i derby, che ancora oggi per molte squadre che militano nei primi campionati restano partite di tutt’altra importanza rispetto al resto.

Il termine ‘topofilia‘ indica il profondo e a tratti malato senso di attaccamento emotivo che l’uomo ha verso particolari scenari sportivi. A rendere una partita di calcio una piccola battaglia navale hanno contribuito molto gli stadi, la radio e i cronisti. La diffusione dell’informazione sportiva ha portato sempre più occhi e orecchie sui terreni di gioco, contribuendo soprattutto alla propaganda e al maturare dell’interesse tra i meno agiati.

Di ciò che è passato oggi restano le conseguenze, tra uno sfottò al bar e un coro di troppo. Dimentichiamo che lo sport è stato tutto men che meno solo ed esclusivamente divertimento (entertainment direbbero gli inglesi), specie se praticato ad alti livelli e con una maglia e un onore da difendere. Un rituale di identità, poche volte un divertimento e molte volte un simbolo di forza o di resistenza, un modo perché si dica che uno è migliore di un altro. Alla base degli indipendentismi odierni, come abbiamo visto, v’è anche la pratica sportiva che dona linfa e coraggio, fama internazionale e il riconoscimento del mondo. In un tempo che ha visto sostituirsi le sciabole ai palloni e ai campi in erba sintetica, lo sport rafforza ancora la propria identità sotto tutti i punti di vista, ed è a tutti gli effetti uno strumento politico. Non ha smesso, ha solo moderato le influenze che ha avuto in passato, passando dall’essere causa di validi e nobili sentimenti a conseguenza di futili odi e antipatie.

Nicola Puca

Fonte immagine in evidenza: google.com

Fonti: Enciclopedia Treccani

 

 

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