Le urne hanno parlato e hanno decretato l’ovvio. La larga (non larghissima) vittoria del centrodestra era ampiamente attesa, così come la rimonta del Movimento Cinque Stelle e la chiara e netta affermazione di Meloni. Si conferma, forse più del previsto, il tracollo della Lega che, scesa sotto il 10% è alla ricerca di un nuovo segretario, mentre diventa ormai consuetudine la capacità di Silvio Berlusconi di conservare il suo zoccolo duro. Non sorprende più di tanto la sconfitta del Partito Democratico che conferma tutti i suoi limiti. Infine, il connubio tra Renzi e Calenda non riesce a sfondare tra i liberali di destra, rosicchiando più del dovuto voti al Partito Democratico.
Al futuro governo di centrodestra non spetteranno compiti semplici. Avrà poco tempo per trovare una soluzione al caro bollette, alla crisi energetica e soprattutto avrà qualche settimana per redigere la legge di bilancio. Dopo anni passati all’opposizione, Fratelli d’Italia dovrà passare dalle parole ai fatti. Seppur dotata di una maggioranza solida, il centrodestra avrà l’obbligo di chiarire le frizioni interne congelate durante la campagna elettorale.
L’analisi del voto, però, non si limita soltanto a tenere in considerazione i valori percentuali dei partiti e la loro trasformazione in seggi. Ci sono diversi aspetti da chiarire, da approfondire e da collocare all’interno di uno scenario politico complesso. Un focus merita anche l’astensionismo, sbrigativamente catalogato come disinteresse da taluni giornalisti che, a dire il vero, individuano soltanto una parte, purché importante, del problema e ignorano il resto.
La vittoria di Meloni, la débâcle del PD, la resa di Salvini
Il primo punto da cui partire per analizzare il voto è sicuramente quello più ovvio. Il centrodestra ha vinto con il 44% dei suffragi, staccando la sinistra di circa 18 punti. Una vittoria netta, ampia, il cui merito, però, è quasi esclusivamente dell’exploit di Giorgia Meloni.
Insomma, vince la destra senza centro, visti i magri risultati di Lega (9%) e FI (8%). La vittoria di Meloni è netta sotto tutti gli aspetti, ed è frutto di un duro lavoro di costruzione durato ben cinque anni in cui, e non era scontato, la leader ha azzeccato ogni mossa in politica interna e soprattutto internazionale, come dimostra la chiara volontà di riposizionarsi in chiave atlantista e moderata, oppure la cucitura operata in Europa con le istituzioni e i grandi partiti continentali. Sul fronte interno, Meloni è stata favorita anche per la scelta di sedere tra i banchi dell’opposizione di ben tre esecutivi consecutivi.
I flussi elettorali confermano come il principale bacino elettorale di Fratelli d’Italia provenga dalla Lega. Metà dei suffragi ottenuti dal partito dell’ex ministro dell’Interno nel 2018 hanno preferito migrare verso FdI, seguiti da una buona parte di ex elettori di Forza Italia, di astenuti e una minoranza di grillini. Dal punto di vista geografico, il voto a Meloni in queste elezioni politiche è stato equamente distribuito in tutto il Paese, con picchi al nord – a discapito della Lega, come in Lombardia e Veneto dove Meloni si afferma come primo partito – e al centro.
A premiare Giorgia Meloni, in sostanza, è stata anche la volatilità elettorale. Tale condizione si afferma in base a diverse caratteristiche acquisite con il tempo dal partito, di cui hanno beneficiato, in passato, un po’ tutti, da Berlusconi a Grillo, passando per Salvini. Si tratta del cosiddetto “nuovismo“, cioè quella pretesa di presentarsi come una novità assoluta di fronte all’elettorato. A questo si aggiungono lo scenario interno e internazionale favorevole e la perenne attività di opposizione esercitata dal 2018, che hanno reso l’opinione pubblica fortemente soggetta a facili sensazionalismi. Il tutto condito dalla classica retorica nazionalista di destra.
Seppur il leghista sieda al tavolo dei vincitori, non può essere considerato come tale, a fronte del magro risultato uscito dalle urne delle elezioni politiche del 25 settembre. Giorgia Meloni si prende 5 elettori del 2018 su 10. Di conseguenza il partito ha avviato una profonda riflessione interna e diversi esponenti di spicco, come Maroni e Bossi, stanno mettendo in forte dubbio la capacità dell’ex ministro di guidare il Carroccio in futuro. La base aveva manifestato il suo disappunto ben prima del confronto elettorale, a Pontida, ad esempio, dove il leader si era rifugiato per recuperare legittimità politica e dove invece ha trovato una platea di elettori delusi dalle sue promesse mancate sul federalismo.
La pancia leghista ribolle, i dirigenti si lamentano ma per ora il leader resiste. Ma anche lui sa molto bene che, affinché un segretario resti in carica, ha bisogno innanzitutto di vittorie e di potere. E su quest’ultimo aspetto, il tonfo leghista è preoccupante perché ridimensiona anche le aspirazioni governative dell’ex ministro.
Berlusconi, dal canto suo, salva il salvabile proteggendo il suo consenso dall’assalto di Azione, il quale puntava molto sulla penetrazione all’interno del bacino elettorale del Cavaliere. In realtà, ciò che resta di Forza Italia non rappresenta altro che il famigerato “zoccolo duro”, fedele alla leadership del vecchio leader del centrodestra.
Le elezioni politiche del 25 settembre, poi, consegnano al Paese un’altra “evidenza”, lo sgretolamento del centrosinistra e soprattutto del suo partito più rappresentativo (almeno sulla carta): il PD. I democratici sbagliano tutto quello che avrebbero potuto sbagliare sia prima delle urne che, almeno fino ad ora, quanto compiuto dopo. Pochi dirigenti hanno fatto mea culpa, forse solo Decaro. I temi su cui il partito si è maggiormente concentrato, nel presente e nel passato, non sono stati percepiti “vicini” alle istanze dell’elettorato di sinistra. Inoltre la polarizzazione costruita ad arte contro Giorgia Meloni non ha funzionato e ha penalizzato enormemente le capacità comunicative di Enrico Letta. Il centrosinistra, poi, paga un’involuzione da partito progressista a “partito di potere”, cioè un partito preoccupato soltanto per la gestione delle istituzioni e non dei bisogni dell’elettorato.
Nello specifico di questa elezione politica, la campagna elettorale è stata impostata in modo pessimo non solo dal punto di vista comunicativo ma anche programmatico. Enrico Letta non ha chiesto un voto basato su solide argomentazioni, misure e proposte, bensì in base a una comune appartenenza identitaria. Un voto difensivo e non propositivo.
Chi beneficia della crisi del PD è il M5S, il quale recupera 5 punti percentuali. Un mese fa era dato al 10,8% e oggi è sul 15%. Conte fa una buona campagna elettorale e viene premiato dagli elettori. Ruba molto al PD (controllare i flussi) e il Presidente già si immagina come leader dell’opposizione. Nel suo discorso, tenuto la notte del voto, c’è molto Sud, cioè quella parte del Paese da dove proviene circa il 56% dei voti del Movimento. Giuseppe Conte ha capito su quale area del Paese concentrarsi.
Non solo Fratelli d’Italia, vince anche l’astensionismo
C’è un altro vincitore in queste elezioni. Un partito che conta circa il 36% dei consensi. É il partito dell’astensionismo. L’affluenza alle elezioni politiche del 25 settembre è stata del 64%, inferiore a 9 punti percentuali rispetto al 2018, quando fu del 72%. É la più bassa nella storia repubblicana e il calo più ampio di sempre tra due elezioni politiche. Tradotto in milioni di voti, rispetto a cinque anni fa hanno votato quasi 5 milioni di persone in meno.
Basterebbero questi numeri per certificare l’esistenza di un problema grave e importante all’interno della politica italiana. Il livello raggiunto dall’astensionismo è preoccupante e ha prodotto delle conseguenze reali sul voto del 25 settembre. Ha infatti rafforzato la vittoria della destra in proporzione ai suffragi assoluti e ha consentito al PD di evitare una disfatta ancora più grande rispetto al 2018, nonostante abbia preso quasi 2 milioni di voti in meno. Basti pensare che la destra ha vinto con gli stessi voti (12 milioni) con cui il centrosinistra uscì sconfitto alle elezioni del 2008.
Capire le motivazioni dell’astensionismo è difficile perché le ragioni sono diverse e non tutte possono essere ricondotte alla volontà di non votare. Una parte di essa si spiega con quello che è stato ribattezzato come “astensionismo involontario“, cioè quello legato a persone anziane che non possono recarsi al seggio o ai fuorisede, lavoratori e studenti, che in Italia sono 5 milioni. Sono tutti problemi imminenti e che potrebbero aumentare nei prossimi anni.
L’astensionismo volontario, invece, dipende da diversi fattori sociali, culturali, politici e istituzionali. Dalle precarie condizioni economiche alla marginalità sociale, passando per la sfiducia generalizzata nei confronti dei partiti e delle istituzioni. Una parte di questo problema potrebbe spiegarsi anche con la rinuncia di votare un partito di cui si prevede una sicura sconfitta. Infine c’è la causa principale: il disinteresse nei confronti della politica. L’ISTAT in uno studio ha calcolato che tale problema coinvolge circa 12 milioni di persone. Tante.
Le conseguenze dell’astensionismo sono facilmente prevedibili. La creazione di un vuoto rappresentativo di così ampia portata è una minaccia per la democrazia e un male per la rappresentanza politica. Più che su ogni altra cosa, i partiti sono chiamati a interrogarsi sui motivi per cui i cittadini si percepiscono così lontani dalla cosa pubblica.
Donatello D’Andrea