Le brutte notizie, come i catastrofici incendi nell’Artico, non arrivano mai da sole, ma non bisogna limitarsi a guardare scoraggiati questi eventi. Come riportato da Afp, circa 200 renne sono state trovate morte alle Isole Svalbard, le terre abitate più a nord della Terra e arcipelago dell’estrema propaggine norvegese, probabilmente di stenti riconducibili ai cambiamenti climatici.
In più, resta gravissima la situazione dei vasti incendi a nord del circolo Polare o nelle immediate vicinanze: oltre 3,2 milioni di ettari di foresta stanno bruciando in Russia, nell’immensità siberiana, e in particolare nelle vicinanze di Krasnoyarsk e Irkutsk, con una situazione gravissima anche in Jacuzia. Secondo le autorità sono centinaia gli incendi domati in prossimità di abitazioni, ma se ne segnalano più di 300 lontani migliaia di km dalle città e molto difficili da raggiungere. Vista la vastità del territorio russo e la scarsissima densità abitativa nella zona, la politica delle autorità russe è quella di limitarsi a monitorare molti di questi remoti incendi, perché un qualsiasi intervento risulterebbe antieconomico e pericoloso. Vaste aree andate a fuoco si segnalano anche in Alaska e in Canada, in Alberta. I fumi che avvolgono le foreste sono ben visibili anche dallo spazio, tanto da essere stati ripresi dai satelliti dell’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea.
Come denunciato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), le foreste boreali, che ricoprono quasi interamente le regioni sub-artiche della Terra, stanno bruciando a un ritmo mai misurato prima, e anche questi incendi sono diretta conseguenza del climate change e aggravano la situazione: “c’è l’ulteriore problema della fuliggine che cade sul ghiaccio o sulla neve favorendone lo scioglimento perché, scurendo la superficie, ne riduce la riflettività e intrappola più calore”.
Senza contare che l’incognita maggiore è rappresentata dal permafrost, lo strato di terreno ghiacciato più profondo e resistente che, sciogliendosi, fa ragionevolmente temere un probabile sprigionamento in atmosfera di grandi quantità di metano, che aggraverebbero ulteriormente il quadro.
La fine dell’eccezione Polare nell’Artico
Quanto detto fin’ora, però, non ci dà ancora la misura della sfida globale che l’umanità ha davanti in Artico, meri epifenomeni di una partita ancor più complessa, dal momento che il climate change non ha conseguenze solamente ambientali. La variabile fondamentale resta l’uomo, che nell’Artico ha tanti interessi quanti sono gli attori in campo. Spesso divergenti, conflittuali, potenzialmente esplosivi.
Comunque vada, l’umanità sta assistendo a un cambiamento epocale. Cognitivo, prima ancora che ambientale. E come per ogni cambiamento che ha davvero segnato un’epoca, facciamo fatica a vedere al di là di quell’“ampliamento del campo del possibile” che ci è richiesto. Il mondo si è accorto dell’Artico e lo ha fatto, significativamente, appena negli ultimi 10-20 anni: prima con un crescente interesse scientifico allo scioglimento dei ghiacci, poi – ed è cronaca di questi anni – con un estenuante e psicotico dibattito su come fare per contenere il riscaldamento del Pianeta. Per millenni, di fatto, idealmente l’Artico nemmeno è davvero esistito: prima sfuggito alla storia umana, se non per casi assolutamente episodici, poi scoperto, snobbato e coscientemente ignorato dalle grandi potenze del Globo. I ghiacci e le condizioni proibitive lo hanno protetto da qualsiasi intromissione umana e dalle rovine della storia. E con ciò hanno protetto le condizioni materiali della vita umana sulla Terra.
Robert Edwin Peary, il leggendario esploratore americano che sognava di conquistare il Polo Nord e che infine vi riuscì – o almeno così disse – piantandovi una bandiera degli States il 6 aprile 1909, come primo gesto volle informarne via cablo il suo presidente, William Howard Taft: “Ho l’onore di mettere il Polo Nord a sua disposizione”, scrisse. La risposta presidenziale fu altrettanto telegrafica: “La ringrazio della sua interessante e generosa offerta. Non so esattamente che cosa potrei farci”.
Per oltre un secolo, l’interesse geopolitico per l’Artico non è cambiato: di un mare ghiacciato circondato da continenti, neppure USA e URSS nei venti della guerra fredda seppero bene che farsene. Eppure Alaska e Siberia, così vicine. Lo abbiamo smembrato nei planisferi, il mar Glaciale, e ancora oggi ci mancano le mappe – mentali, oltre che cartacee – per familiarizzare con la geografia dell’estremo nord. Sempre meno bianco e sempre più blu.
Eppure, ancora, l’Artico è l’unico punto del Pianeta che vede direttamente protagoniste tutte le attuali potenze: gli Usa, tramite l’Alaska (e non particolarmente entusiasti), la Russia, che con lo scioglimento dei ghiacci sta scoprendo di avere un’enorme frontiera settentrionale molto vulnerabile e da puntellare, e incredibilmente la Cina, che sta tentando di comprare a suon di contanti la via commerciale artica (Northern Sea Route). Non mancano naturalmente gli Stati Europei, divisi come sono tra appoggio incondizionato alla NATO, interesse per i progetti infrastrutturali cinesi e tentativi di mediare con lo spaventoso vicino eurasiatico. E naturalmente il Canada, che pure un po’ di scaramucce con il vicino nord americano per il controllo degli stretti del passaggio a Nord-Ovest non se le è fatte mancare.
“Quella dannata cosa si sta sciogliendo!”
Aspettando le conseguenze ambientali del climate change, una prima rivoluzione copernicana, nell’immaginario, è già compiuta: l’Artico non è più un’eccezione. Il mito dei Poli quali luoghi eccezionali, dove le ragioni della cooperazione scientifica tra Stati sopravanzano la ragion di Stato e dove può esserci un vuoto giuridico, è definitivamente e fragorosamente crollato. Sciolto al sole del riscaldamento globale, e adesso arso dagli incendi.
Come ci ha tenuto a precisare in un recente incontro con la stampa il segretario all’US Navy Richard Spencer, a un giornalista che gli chiedeva il perché si continuasse a preoccupare della difesa dell’Alaska: “Quella dannata cosa si sta sciogliendo!”, e i problemi non saranno puramente ambientali. L’Artico, la sentinella non pagata.
Oggi si moltiplicano gli articoli, le notizie e gli incontri diplomatici, e con questi si moltiplicheranno le infrastrutture, le navi rompighiaccio che stanno già aprendo la strada al commercio internazionale (tanto da far ipotizzare ripercussioni sui canali di Suez e di Malacca!), le basi militari, le ricerche di idrocarburi a latitudini prima inesplorate. Si moltiplicheranno le presenza umane, e con ciò è ragionevole temere che diminuiranno drasticamente le concrete possibilità di tutelare fattivamente il sempre più fragile ecosistema Artico.
È per questa ragione che Libero Pensiero, nelle prossime settimane, porterà avanti uno speciale approfondimento dedicato alle conseguenze geopolitiche e strategiche dello scioglimento dei ghiacci artici causato dal climate change. Un tema indubbiamente complesso, ma quanto mai attuale, che affronteremo nel dettaglio per conoscere più da vicino di cosa si tratta, realmente, quando si parla dell’estremo Nord. Ciò che succede nell’Artico, come ripetono da sempre gli scienziati, non rimane nell’Artico.
Antonio Acernese