«La scienza oggi ci dà ragionevole certezza di poter scrivere e dire ad alta voce che di PFAS si muore» – afferma Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, nel suo libro PFAS. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua. Storie di diritti negati e cittadinanza attiva.
Quando i PFAS vennero scoperti negli anni ’40 del secolo scorso da DuPont, una multinazionale chimica statunitense, furono impiegati nella produzione delle padelle antiaderenti. Con il tempo, per via delle loro caratteristiche proprietà idrorepellenti, sono stati utilizzati negli imballaggi alimentari, nei vestiti, nei cosmetici, nei dispositivi medici, nelle vernici, in prodotti di uso comune che occupano ormai ogni angolo del globo. Questi composti, infatti, sono particolarmente persistenti ed è difficile romperne i legami chimici anche ad altissime temperature: sarà possibile trovare i PFAS per secoli nell’acqua, nell’aria, nel sangue e persino nei ghiacciai.
Ungherese, nel suo libro, racconta le conseguenze nefaste per la salute collettiva e per l’ambiente derivanti dall’utilizzo indiscriminato di questi composti chimici, le vicende giudiziarie che hanno visto il contrapporsi di multinazionali come DuPont e Miteni a chi ha sulla propria pelle il marchio indelebile dei PFAS, le mobilitazioni dal basso nate per reclamare i propri diritti nelle località maggiormente colpite dalle contaminazioni e le responsabilità delle aziende produttrici che per anni hanno continuato a inquinare e a occultare i dati scientifici a riguardo.
La vicenda dei PFAS non è che l’ulteriore riprova di una mentalità e di un modus operandi ecocidari. Mai come prima d’ora l’umanità ha acquisito un potere tecnologico e scientifico tale da sprigionare una forza creatrice, che potenzialmente avrebbe dovuto liberare l’essere umano, e che invece, per l’ambizione di elevarsi a homo deus, lo ha reso vittima di questo stesso potere. Lo sfruttamento illimitato delle risorse naturali e dei viventi, su un pianeta finito, sta ora mettendo seriamente a rischio l’esistenza dell’uomo stesso.
Ungherese chiude il suo libro con un’esortazione a ribellarsi allo stato di cose presenti e a non accettare che continuino a perpetrarsi ingiustizie ambientali e sanitarie a danno della collettività: «Non avalliamo un mondo che ci vuole ciechi, muti e sordi. Di PFAS si muore, non rassegniamoci passivamente a questo triste destino che incombe su ognuno di noi».
Qui di seguito l’intervista rilasciata da Giuseppe Ungherese:
Cosa sono i PFAS e perché sono chiamati «forever chemicals»?
«Quando parliamo di PFAS facciamo riferimento ai composti poli e perfluoroalchilici. Sono sostanze chimiche di sintesi che non esistono in natura, che sono state create dall’uomo e, la caratteristica che li contraddistingue, è il fatto di avere un legame chimico formato da carbonio e fluoro. Quando si legano questi due elementi danno vita a uno dei legami chimici più forti che esistono, quindi questo legame li rende di fatto indistruttibili ai normali processi che conosciamo, e da qui poi il nome «inquinanti eterni» e «forever chemicals» perché queste sostante, una volta immesse in natura, per le loro caratteristiche – che poi sono responsabili delle loro particolari e uniche proprietà – sono pressoché indistruttibili, proprio grazie a questo legame».
Nel tuo libro evidenzi come i PFAS da miracolo della scienza, si siano ben presto rivelati, in realtà, una piaga per gli ecosistemi e per la salute collettiva. Quali sono, dunque, i benefici arrecati dall’utilizzo di queste sostanze chimiche e quali invece le conseguenze negative che ne scaturiscono?
«Queste sostanze per le loro proprietà uniche hanno permesso un’applicazione in tanti prodotti di uso comune e beni di consumo. Bisogna però trovare qual è l’equilibrio, perché laddove queste sostanze vengono utilizzate in processi, applicazioni e prodotti che arrecano un grande beneficio alla collettività si va verso quello che poi viene definito «l’uso essenziale». Bisogna individuare qual è il punto in cui diventano veramente fondamentali nella nostra stessa esistenza. Se queste sostante vengono utilizzate negli stent coronarici – e non c’è un’alternativa -, lì è fondamentale continuare a utilizzarli, ma se oggi tante volte vengono utilizzate come gas refrigeranti – e ci sono le alternative -, oppure per impedire che ti unga le mani quando vai al fast food e il contenitore deve essere olio repellente, insomma capisci bene che in quei rami lì siamo di fronte ad abusi, che poi vanno ad aggravare una situazione ambientale di per sé già complicata. Quindi sta alla politica trovare il giusto compromesso, perché queste sostanze per alcune applicazioni ancora ci servono, ma per altre diventano un problema così grande per la collettività che qual è il beneficio: vale di più la vita di una persona, o non ungersi le mani quando vai a mangiare le patatine al fast food e non lasciare le impronte digitali sullo schermo di un cellulare?»
Certo, soprattutto nel momento in cui ci sono delle alternative.
«Ci sono tantissime alternative in tanti settori industriali e in questo è fondamentale il lavoro della ricerca. Oggi nella stragrande maggioranza dei casi in cui vengono impiegate queste molecole possono essere sostituite. È chiaro, però, che nella transizione, in qualsiasi ambito, che sia chimico, energetico o di altro tipo, sta al legislatore favorire una conversione verso produzioni che siano meno impattanti per la salute e l’ambiente. E qui il legislatore manca, perché continua a fare un’operazione in cui fa finta che il problema non esista, lasciando a chi verrà dopo dover fare i conti con una contaminazione che si aggrava di ora in ora e di giorno in giorno, e questa è una mancata assunzione di qualsiasi tipo di responsabilità».
«L’acqua? Non è buona neanche per le bestie» – così titolava il Giornale di Vicenza nel settembre del 1977. Nella regione Veneto ha avuto origine, così, un caso eclatante riguardante i PFAS che si è protratto fino a oggi. Quali sono state le ripercussioni sulla salute collettiva e quale ruolo hanno avuto le istituzioni pubbliche e le mobilitazioni cittadine affinché si adottassero delle contromisure?
«Quello del Veneto è sicuramente uno dei casi più gravi di questa tipologia d’inquinamento nel continente europeo, uno dei casi d’inquinamento più estesi e che coinvolge il maggior numero di persone – dovrebbero essere oltre 350 mila quelle colpite – in numerosi comuni fra le province di Vicenza, Verona e Padova. Qui è stata irrimediabilmente compromessa una delle falde acquifere più grandi d’Europa, grande quanto il Lago di Garda e che sarebbe dovuta essere una risorsa utile per tantissime generazioni avvenire. Qui l’inquinamento è venuto a galla solo nel 2013. Per anni le istituzioni hanno sottovalutato il problema, nonostante ci fosse un caso pregresso già verso la fine degli anni ’70, dove la stessa azienda che ha inquinato questa falda, aveva causato un grave episodio di inquinamento che aveva coinvolto parte della stessa area, incluso il capoluogo di provincia di Vicenza. Le istituzioni per anni hanno preso sottogamba il problema, non hanno dato le informazioni che dovevano alla popolazione, come tra l’altro ha messo in evidenza il commissario ONU Marcos Orellana, che recentemente è venuto in visita proprio nell’area e ha denunciato pubblicamente come all’inizio e negli anni dell’emergenza la popolazione non sia stata avvertita di questo grave problema. Negli anni alcune iniziative politiche sono state messe in atto, soprattutto grazie alla spinta dal basso della società civile che ha richiesto norme rigorose. Certo è che il problema lì non è risolto, perché oggi in quell’area, che è a forte vocazione agricola, noi non abbiamo un quadro chiaro ed esaustivo sulla contaminazione dei prodotti alimentari, frutta, verdura, prodotti di origine animale che potrebbero finire non solo nel mercato italiano, ma anche estero. L’area che l’azienda, fallita nel frattempo, ha inquinato non è mai stata bonificata. Quindi ancora oggi il sottosuolo di quell’azienda è impregnato di sostanze chimiche pericolose. Questa è una grave pecca, perché se io ho un problema, devo intervenire all’origine del problema e non a valle del problema. Sono stati avviati degli screening sanitari, ma sono qualcosa che quasi non sortisce effetto perché se continuo a monitorare i livelli di questi inquinanti per i quali non esiste una cura nel sangue delle persone, diventa una sorta di pseudo-cura che propongo alla collettività e che non risolve il problema; sposto capitali da un’operazione, magari di bonifica, che avrebbe potuto portare a un intervento duraturo a lungo termine, quindi si tratta di una pseudo-cura che serve ad alimentare il sistema politico locale e alla fine non porta a niente».
Tu dici che «ribellarsi è giusto», ma è davvero possibile ribellarsi contro multinazionali come DuPont e 3M che investono ogni anno cifre considerevoli nella ricerca scientifica e in campagne di comunicazione volte alla distorsione della verità, al fine di continuare a trarre profitto dalla devastazione ambientale e minando alla salute collettiva? Nella tua esperienza le istituzioni europee, le organizzazioni come Greenpeace e le mobilitazioni dal basso, possono davvero fare qualcosa contro giganti economici come questi?
«Più che ribellarsi è giusto, è un dovere di ogni persona: ribellarsi alle ingiustizie, a situazioni per cui si è vittime sacrificali di poteri forti e di dinamiche di profitto a ogni costo. Questa storia ci insegna che non bisogna arrendersi perché noi, nella storia del PFAS, siamo circondati da piccole grandi storie che sono tutte storie di Davide che si sono scagliati contro il Golia di turno e sono riusciti a ribaltare situazioni apparentemente non ribaltabili. Pensiamo ai casi negli Stati Uniti dove grazie allo sforzo di singole persone, a partire da un allevatore, un avvocato ostinato, sono riuscite a creare qualcosa di veramente nuovo, con risarcimenti milionari. Il processo PFAS in Veneto, che si sta svolgendo a Vicenza, è a oggi il più grande processo ambientale mai svolto nella storia italiana, che potrebbe portare a condanne esemplari, almeno così ci auguriamo. Quindi non bisogna dare niente per scontato, in questa faccenda e in tutte le faccende che riguardano l’ambiente, dobbiamo pretendere che chi ci governa faccia del benessere e degli interessi collettivi una priorità a discapito della tutela di interessi di pochi, fare in modo che chi ci governa veramente agisca in questo modo. Questa storia c’insegna che scrivere un altro futuro, in cui noi non ci rassegniamo, è possibile e dobbiamo farlo».
Quali sono gli ultimi progetti di Greenpeace e quali sono tuoi auspici circa il futuro sulla questione PFAS?
«Ora noi stiamo lavorando per fare in modo che ci sia una legge nazionale su queste sostanze perché, l’unica via per provare ad arginare questo problema che si estende a macchia d’olio, è quella d’intervenire a monte e di vietarle in tutte quelle produzioni in cui è possibile già farlo – che sono la maggior parte. Allo stesso tempo, è in atto in Europa un processo che dovrebbe portare a vietare queste sostanze nell’ambito del regolamento europeo REACH, che se verrà portato fino in fondo, sarà il più grande processo di regolamentazione di sostanze chimiche nella storia dell’umanità, perché parliamo di oltre 10 mila sostanze regolamentate, quindi è uno sforzo legislativo enorme. Inoltre, mi conforta il fatto che molte nazioni, anche nostre vicine, in questo momento stanno legiferando su queste sostanze. La Francia, poco meno di due settimane fa, ha fatto una legge che ne vieta l’uso nei vestiti, nelle scioline e in altri prodotti. La stessa cosa ha fatto la Danimarca. Gli Stati Uniti, che non sono certo un esempio per quel che riguarda le normative ambientali, poco meno di dieci giorni fa hanno messo un limite zero per queste sostanze nell’acqua potabile. Questo è un segnale politico forte, ci sono, quindi, tante cose in movimento. E proprio oggi bisogna essere tutti uniti e compatti, non solo le organizzazioni ambientaliste, ma tutta la società civile per fare in modo che si arrivi a una regolamentazione. Abbiamo delle grandi occasioni per far sentire la nostra voce, anche quando siamo in cabina elettorale, e quindi votiamo per chi ha a cuore l’ambiente e, di conseguenza, la nostra salute».
Celeste Ferrigno