Con l’approvazione definitiva del disegno di legge sul cosiddetto omicidio stradale, dopo un travagliato percorso legislativo di quasi quattro anni e l’apposizione necessitata della fiducia, è stata finalmente data risposta ad un problema molto sentito quale è quello delle vittime di incidenti stradali.

«Per Lorenzo, per Gabriele, per le vittime della strada. Per le loro famiglie. L’omicidio stradale è legge. #Finalmente». Così il premier Matteo Renzi, in un tweet, ha dedicato questo successo legislativo alle vittime della strada. Le associazioni Gabriele Borgogni e Lorenzo Guarnieri, nate proprio per chiedere una maggiore tutela delle vittime della strada, hanno pressato il governo affinché portasse a casa questa riforma.
C’è però da fare qualche precisazione. Innanzitutto non è corretto affermare che questa legge abbia introdotto l’omicidio stradale, come vorrebbe la propaganda governativa, bensì si potrebbe dire che il governo abbia voluto intervenire per modificare una normativa già completa e vigente sul tema. Una modifica non solo terminologica, beninteso, perché la riforma ha operato un sostanzioso aumento delle pene massime e dei tempi di prescrizione.

Insomma il “reato di omicidio stradale” c’era già, ma non lo si chiamava così: l’articolo 589 del Codice Penale vigente infatti espressamente stabilisce che chiunque causi per colpa – ossia per imperizia, imprudenza o negligenza – la morte di una persona rischi dai sei mesi ai cinque anni di detenzione; se il fatto – continua la legge – è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, allora il reo rischierebbe dai due ai sette anni di carcere. Pene che possono poi essere aumentate, secondo l’impianto normativo vigente, fino al triplo – secondo il numero di vittime e il tasso di sostanze alcoliche o psicotrope presenti nell’organismo del conducente – senza superare la pena massima di quindici anni.

Il governo quindi non ha introdotto nulla, è evidente, ed anche le modifiche seguono lo schema della disciplina vigente. Il massimo della pena viene aumentato da quindici a diciotto anni di reclusione per colui che in stato di ebbrezza uccida più di una persona. Una responsabilità a titolo di colpa, secondo quanto ci insegnano i principi dell’ordinamento penale, che ha il sapore di responsabilità quasi oggettiva e una pena che sfiora la pena minima dell’omicidio doloso, che resta di ventun anni. In parole povere, l’omicidio stradale – che è la morte causata dal comportamento imprudente di un automobilista – potrà essere punito (a seconda dell’oggettiva gravità delle conseguenze di quel comportamento) alla stregua dell’omicidio volontario.

Già con il previgente impianto normativo, la giurisprudenza si era posta il problema di giustificare pene troppo elevate per un reato colposo, e aveva tentato di far rientrare queste ipotesi in casi di dolo eventuale (il soggetto prevede che dalla sua condotta ci possano essere determinate conseguenze, ma non se ne preoccupa e agisce ugualmente).
La considerazione di un accresciuto allarme sociale provocato dalla condotta di colui che si metta al volante del proprio veicolo sotto effetto di sostanze alcoliche o psicotrope giustifica, secondo alcuni, l’inquadramento di questa condotta tra il dolo e la colpa: un comportamento sostanzialmente colposo ma grave a tal punto da giustificare pene elevate quanto l’equivalente reato volontario.

In questo controverso quadro giurisprudenziale, è intervenuto in più battute il legislatore con il dichiarato scopo di dare alle numerose vittime della strada una tutela più forte. In un provvedimento in cui tutte le forze politiche sembrano d’accordo, si intravvede all’orizzonte il pericolo di un diritto penale squilibrato, usato con scopi repressivi e scollegato dai principi dello stato di diritto.

Roberto Davide Saba

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