Il Pompeii Theatrum Mundi, progetto quadriennale pensato e realizzato dal Teatro Stabile Napoli, passa in rassegna il suo secondo spettaccolo, L’Oedipus, una rielaborazione della tragedia di Sofocle ad opera di Robert Wilson.

Ancora una volta il Pompei Teatro Grande del parco archeologico campano accoglie gli spettatori con la sua spettacolare atmosfera, un respiro storico che sembra poter portare indietro nel tempo, in piena conciliazione con quella catarsi alla quale solo una tragedia greca può condurre.
Probabilmente proprio per queste specifiche aspettative date dall’ambientazione e dal tema dell’opera, il pubblico si è dimostrato interdetto alla conclusione dello spettacolo, diviso tra chi urlava al “genio” e chi invece, deluso, avrebbe preferito essere spettatore dell’originale classico.

Robert Wilson ha infatti portato sull’antico palco latino una tragedia riletta in chiave contemporanea, svuotata della sua azione, della sua fisicità e della sua aulicità. L’Oedipus è ora un esericizio di tecnica multimediale reso da un atteggiamento interdisciplinare, raccontato da un linguaggio che si fa miscela tra teatro, danza, musica e arte figurativa.

La struttura resta classica: cinque parti e un prologo, con la prima parte che riflette nella quinta e la seconda nella quarta. La contemporaneità e la stravaganza dello spettacolo si costruiscono nella modalità del racconto. Gli attori non impersonificano un determinato personaggio, ma testimoni, ragazzi, un uomo con il sax, uomini al trivio, donne che ballano… ad eccezione di Michalis Theophanous e Casilda Madrazo, che interpretano rispettivamente Oedipus e Giocasta.

La recitazione si riduce alle varie voci narranti che scandiscono le parti salienti della trama dell’Oedipus tramite frasi-chiave. Queste vengono ripetute costantemente e per tutte la durata dello spettacolo in cinque lingue diverse (italiano, francese, inglese, tedesco e greco antico) da voci a tratti isolate, spesso sovrapposte, altre volte che si incastrano tra loro per i lunghi echi dati dalle casse agli apici del teatro. Sembra che Wilson, con l’utilizzo di tale plurilinguismo, voglia suggerirci l’universalità del concetto tragico, ma al contempo un’incomunicabilità di fondo. Come davanti ad un comico Zanni, lo spettatore si ritrova infatti a dover ricamare e comporre stralci di discorsi, che può captare grazie ad una sua conoscenza di una o più lingue tra quelle utilizzate, mentre combatte con le varie musiche, suoni, sovrapposizione di voci che non aiutano di certo alla chiarezza.

Wilson ha creato un gioco di simbologie che abbatte completamente la quarta parete e vuole esprimersi tramite giochi di luci e di suono, che creano a lungo andare un effetto disturbante e di frustrazione. La sensazione non è quella di aver effettivamente assistito all’Oedipus di Sofocle, ma di esser entrati all’interno di una tragedia che si costruisce passo dopo passo. Si respira il trauma dell’incesto senza averlo mai davvero visto (Giocasta rappresenta la terra ed Oedipus inizia a zoppicare, cammina in modo incerto, non riesce a poggiare per bene il piede sul terreno), così come varie scene ad impatto sembrano sì collegarsi all’atmosfera estrema dell’Oedipus di Sofocle, ma sembrano scollegate nello spettacolo di Wilson, come se a mancare sia per prima la vera rappresentazione dei fatti.

I personaggi sono lenti nei movimenti e nelle azioni, come se vivessero in una dimensione del tempo dilatato, caratteristica che, protratta per tutto lo spettacolo, può portare spesso lo spettatore a distrarsi e a non prestare completamente attenzione. Gli attori diventano così protagonisti di scene costruite ad opere d’arte, come se Wilson li avesse messi in cornice: si mostrano con il loro trucco perfetto, le loro posizioni statuarie studiate, inondati da diverse luci che creano sui loro corpi importanti chiaro-scuri. La loro bellezza entrerà infatti più volte in contrasto con l’ambiente che si costruisce a man mano intorno a loro.

Il gioco metateatrale si fa evidente quando il palco viene riempito di sedie dalle “ombre in nero”, posizionate lentamente, una dopo l’altra, fino a creare uno specchio delle gradinate su cui gli spettatori erano seduti, ma destinate a non essere riempite. Finito il lavoro, il teatro costruito sul palco viene inesorabilmente distrutto, mentre la voce narrante continua ad alternare urla al vero racconto. La tragedia è quindi compiuta ed è un punto di rottura così forte che tocca ogni cosa: la finzione scenica, la nostra realtà, il mondo intero, il passato e il futuro. Wilson sembra contraddire l’abitudine latina dell’ambientare le tragedie in luoghi considerati esotici per scongiurare il pericolo: ora non si può fuggire da nessuna parte, ogni orrore può capitare a chiunque e dovunque.

L’Oedipus  di Wilson è uno spettacolo costruito su questa linea: una continua alternanza tra urla e silenzi, luci accecanti e oscurità, gesti di isteria e vuoti totali di azione, voci sinistre e altre che sembrano quasi compiacersi solo perché viene data loro la parola. La sensazione unanime che ne scaturisce è la stessa per tutti: il sentirsi disarmati.
Achille Bonito Oliva interpeta l’utilizzo di questi vari espedienti con un voler riprodurre «la parola della piazza, che nasce sempre dal conflitto e in conflitto. Ora la Voce non si aspetta risposta o commercio. Segue l’ombra[..] colora la propria cifra, si dispone a raccogliere gli echi della casa, i vuoti interni ed i suoni concitati del clima diurno, senza arrestarsi sulla soglia di nessuna pausa e di nessun confine».

Alessia Sicuro

Alessia Sicuro
Laureata in lettere moderne, ha in seguito ha conseguito una laurea magistrale alla facoltà di filologia moderna dell'università Federico II. Ha sempre voluto avere una visione a 360 gradi di tutte le cose: accortasi che la gente preferisce bendarsi invece di scoprire e affrontare questa società, brama ancora di tappezzare il mondo coi propri sogni nel cassetto. Vorrebbe indossare scarpe di cemento per non volar sempre con la fantasia, rintagliarsi le sue ali di carta per dimostrare, un giorno, che questa gioventù vale!

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