Era tutto previsto. Era già tutto maledettamente previsto. Gli dèi del calcio non potevano creare sceneggiatura migliore per il finale della Copa Libertadores 2018: Boca e River, ancora una volta. Andata a La Bombonera (sabato 10 novembre) e poi al Monumental (sabato 24 novembre), per la prima e l’ultima volta in un doppio confronto, nella finalissima del più importante torneo calcistico sudamericano, visto che la CONMEBOL ha da poco annunciato che dalla prossima edizione si prevederà l’atto conclusivo della manifestazione in un match secco.

Boca-River (River-Boca) è la resa dei conti. O sei uno o sei l’altro. Non ci sono vie di mezzo. Due modi diversi di concepire il calcio accomunate dalla passione, dalla garra e dal barrio di origine: la Boca. Sì, perché non tutti sanno che la più acre rivalità del mondo calcistico vede i suoi protagonisti nascere nello stesso luogo, prima che il River Plate si trasferisse stabilmente nel quartiere ricco di Nunez, divenendo l’opposizione anche sociale della squadra povera, del popolo, il Boca Juniors.

Una contrapposizione resa ancora più mistica dalle storie e dalle leggende che hanno accompagnato le due squadre in questo secolo e più. Dai Los Millonarios, così denominati perché per acquistare il grande Bernabé Ferreyra l’allora presidente Antonio Vespucio Liberti – che tra l’altro è anche il nome dello stadio del River da lui fortemente voluto e ‘costruito’ – scaraventò sul tavolo del suo omologo del Tigre, proprietaria del cartellino dell’attaccante, un lingotto d’oro. Il gesto fu presto sulla bocca di tutti e ormai l’etichetta risultò indelebile, marchiata e consegnata alla storia del fùtbol. Per la cronaca “la Fiera” (la Belva), così soprannominato, segno 185 reti in 187 presenze. Mai lingotto fu speso così bene. Chissà, invece, se quei ragazzi genovesi, nel lontano 1905, che in trepidante attesa scorgevano gli occhi verso la bandiera della nave entrante nel porto di Buenos Aires, immaginavano l’immensa magia che avrebbero creato. Approdò una nave svedese, i colori giallo e blu così furono decisi e assegnati per sempre alla loro creatura. Gli Xenezeis (i Genovesi), i padri fondatori di una delle storie più affascinanti del panorama calcistico.

Diego Armanda Maradona e Daniel Alberto Passarella [foto: www.estadio.ec]

O Boca o River 

Tantissimi sono i campioni che hanno indossato le due casacche e tutti – ne siamo certi –avrebbero pagato per vivere in mezzo al campo questa doppia sfida che ha il sapore di una resa dei conti. Da una parte il Boca, club con più trofei internazionali vinti (fra i quali sei Libertadores), e dall’altra il River, che nel complesso è la formazione più titolata d’Argentina. Un Superclàsico. Gara che fra le centinaia di metri di carta e coriandoli riversati in campo, le gradinate stracolme e il tifo indiavolato è dai più riconosciuta come la partita più bella e attesa del mondo. Una fotografia, tutt’altro che stereotipata, fa da cornice a concetti di squadra diametralmente opposti che sintetizzano stili e modi di pensare diversi. Il River è esaltazione del gruppo, dei campioni al servizio del collettivo, che ha ne “La Maquina” (la macchina) la sua idolatria. Un team che negli anni ‘40 ha prodotto un’anteprima del calcio totale olandese, una macchina (ecco!) che schiacciava letteralmente gli avversari. Ma la camiseta bianca con la tipica striscia diagonale rossa è stata sulle spalle anche di campioni di caratura mondiale: da Di Stefano a Sivori, da Passarella a Ortega, fino a Cavenaghi e Higuain. Il Boca, invece, ha quasi sempre voluto eleggere un idolo da inneggiare, possibilmente con il 10 sulla schiena. Certo, non sono passati numeri dieci qualunque: non serve ricordare Maradona, Tevez (che è ancora in squadra) o tantomeno Riquelme, l’ultimo diez. L’uomo con il piede divino che con una semplice giocata alimenta il fervore unico de La Bombonera.

L’idolo de La 12 (incha xeneize), al momento, ha però il numero 18 e si chiama Dario Ismael Benedetto. Una divina provvidenza nel vero senso della parola, dato che è stato l’artefice della conquista della finalissima. Da poco rientrato da un serio infortunio, decide il match di andata della semifinale contro il Palmeiras, rifilando un doppietta ai brasiliani dopo essere subentrato a un quarto d’ora dal termine della gara. Non contento, regala la sicurezza della qualificazione nel match di ritorno disputato in Brasile, siglando la rete del pareggio entrando, ancora una volta, dalla panchina. Lo stesso Palmeiras che nella fase a gironi, per tener fede alla stesura dello sceneggiato divino, aveva superato all’ultima giornata i colombiani dell’Atletico Junior: una vittoria inutile ai fini della qualificazione, ma che ha permesso al Boca di guadagnarsi l’accesso agli ottavi. Era scritto. Così come era scritta, ma con un finale al cardiopalma, la qualificazione del River. Quasi compromessa dopo la sconfitta casalinga per 1-0 all’andata a favore del Gremio, la finalissima è stata ripresa a Porto Alegre al ‘95 con un discusso – ed è un eufemismo – penalty che solo il sangue freddo, gelido di Gonzalo Martinez ha permesso di realizzare.

Insomma, Benedetto e Martinez sono gli eroi a cui il mondo deve questa finale che, decisione di poche ore fa, vedrà giocarsi senza tifosi ospiti in entrambe le gare. Infatti, dopo un colloquio fra i presidenti dei due club e il numero uno dell’AFA (federcalcio argentina), Claudio Tapia, si è optato per le trasferte vietate. Con questa pesante scelta ci perde non solo il governo, che aveva assicurato la massima sicurezza per l’evento, ma anche il senso dello sport e lo spettacolo di quello che in Sud America definiscono già il Superclàsico del secolo. Superclàsico dove proprio non è possibile restare indifferente dinanzi alla storia, alla passione, al misticismo creatosi attorno. Poveri o ricchi. Los Xenezeis o Los Millonarios. O Boca o River. Un antagonismo puro, diretto, «necessario», come lo definisce il giornalista Carlo Pizzigoni nel suo libro “Locos per el Fùtbol”.

Eppure, ripetiamolo, è nato tutto lì, a La Boca, quartiere promesso di una terra promessa che ha dato i natali ai più grandi interpreti del calcio moderno. Perché se è vero che il calcio, come lo intendiamo adesso, si sia sviluppato in Gran Bretagna, in Argentina – quasi a rispondere a una rivalità non solo pallonara – sono apparsi come un dono divino profeti e Messia del prato verde.

E se, infine, qualche fazione monoteista si espone senza scrupoli rivelando che Dio è del Boca, noi optiamo per il politeismo e siamo sicuri che gli dèi tutti avranno già scelto anche il finale di questa storia. Non ci resta che godercelo.

Fonte immagine in evidenza: www.fixturemundial.com

Ivan D’Ercole

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