Non so come finire il ritratto di Baudelaire; ogni giorno viene con una faccia diversa” scrive Courbet a Champfleury, mentre è alle prese con il dipinto dedicato all’autore dei Fiori del male. La lotta di Courbet con il volto del poeta è indicativa de l’enigma Baudelaire: le incongruenze di un uomo che scriveva sia per giornali di destra che di sinistra, che disprezzava il realismo, ma che evidentemente vi era vicino, ma anche lo stesso rapporto tra il soggetto e il pittore.

Come scrive Timothy J. Clark nel suo libro dedicato a Courbet (“L’immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48″), quando Baudelaire andava a trovare l’amico, “era perché o aveva bisogno in fretta e furia di una xilografia delle barricate per il frontespizio del suo giornale, oppure gli serviva un amico che prendesse nota dei suoi sogni fatti in preda all’oppio. Entrambe le situazioni sono tipiche: nessuna delle due ha un senso senza l’altra, sono parte della stessa strategia istintiva e confusa”.

Una curiosità riportata nel libro di Clark è che Baudelaire aveva l’abitudine di cambiare pettinatura molto spesso e questa, immaginiamo, deve essere stata una difficoltà in più per Courbet. Quando il maestro francese cercava di cogliere il carattere del poeta, inoltre, si trovava di fronte a un uomo che “(…) amava la luce e l’ombra: era ogni cosa e nulla, l’essere più impoetico che ci fosse.” (p.57).

Eppure Courbet non era il primo a doversi misurare con una simile sfida. Nel 1844 Émile Deroy, figlio dell’acquarellista e incisore Isidore Deroy, aveva dipinto questo ritratto di Baudelaire. La data è interessante, perché nel 1844 Baudelaire doveva ancora diventare veramente famoso: non aveva nemmeno pubblicato i suoi scritti d’arte sui Salon. Chissà che questo non aiutasse Deroy: per lui il poeta parigino era forse un essere umano meno affascinante e dunque meno complicato da ritrarre. Non possiamo esserne sicuri, anche perché Deroy morì nel 1846, ad appena ventisei anni. Courbet, quando attorno al 1848 si dedicò alla sua versione, era completamente solo nel suo compito.

Gli scambi tra arte e poesia non sono infrequenti. A volte sono opere d’arte ad ispirare versi, come nel caso, per fare un nome della poesia degli ultimi sessantanni, di Wisława Szymborska.

Szymborska scrisse diverse composizioni nelle quali si riferiva più o meno esplicitamente a dipinti. Se Gente sul ponte non fa il nome di Utagawa Hiroshige e di questo suo quadro, poesie intitolate Le donne di Rubens, Le due scimmie di Bruegel o Vermeer non lasciano molti dubbi. L’ultima, in particolare, fornisce dettagli addirittura circa la collocazione dell’opera di riferimento con versi come « Finché quella donna del Rijksmuseum/nel silenzio dipinto e in raccoglimento/giorno dopo giorno versa/il latte dalla brocca nella scodella,/il Mondo non merita/la fine del mondo. ». Versi che chiariscono la fascinazione della Szymborska per i maestri olandesi e l’arte in generale. Amore che Baudelaire avrebbe compreso, dato il suo interesse per incisioni, pittura e fotografia.

Nel caso di Baudelaire però, si direbbe che il suo amore per le arti visive sia stato ben più che ricambiato. Non solo pittori come Deroy, Courbet e Manet si dedicarono a ritrarne, rispettivamente, i primi anni, gli anni del successo (si veda «L’atelier dell’artista») e il funerale, ma anche fotografi come Nadar e Carjat si interessarono a lui.

Il ritratto di Baudelaire più incisivo, infatti, non si tratta di un dipinto, ma di una fotografia di Carjat. Il suo autore è noto soprattutto per un ritratto di Rimbaud, che è diventato un’icona ed è stato utilizzato per le copertine di diverse edizioni dell’opera del poeta francese. Il Baudelaire di Carjat è completamente diverso. Se Rimbaud era tutto giovinezza e il suo volto tra la smorfia adolescenziale e lo sguardo quasi assente, l’espressione di Baudelaire è invece intensa, il suo sguardo è diretto a noi ed enigmatico, carico di forza indagatrice eppure anche di un “terrore d’ubriaco”. Carjat riesce a cogliere le contraddizioni del poeta meglio di chiunque altro e lo fa mettendo in contatto gli occhi del fotografato con i nostri.

Nel 1902 Felix Vallotton (1865-1925) avrebbe dipinto un altro ritratto di Baudelaire che, pur non aggiungendo nulla alla nostra comprensione del personaggio, testimonia che l’interesse nei confronti della figura dello scrittore non era diminuita a più di trent’anni dalla sua morte, ma che, anzi, l’autore francese era diventato un’icona in grado di attrarre anche chi, per motivi anagrafici, non lo aveva mai conosciuto di persona.

Non solo il fascino di Baudelaire era arrivato a conquistare artisti figurativi operanti anche nel Novecento, ma le stesse storie dietro a questi ritratti hanno affascinato gli storici dell’arte. Si pensi che Clark conclude il suo capitolo, aggiungendo una certa carica drammatica allo stesso processo creativo di Courbet: “Quando egli si dibatteva per concludere questo quadro, ciò che voleva era una forma altrettanto evasiva e complicata che lo stesso Baudelaire; però nello stesso tempo semplice e concisa. Alla fine la trovò: un’immagine semplice, ma tale che in essa la nostra attenzione si trova a vagare qua e là; un’immagine in cui i particolari non armonizzano affatto tra di loro; la testimonianza di una strana e precaria amicizia.”

Luca Ventura

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