Quando si decide di descrivere una generazione, per di più la propria, ci si perde nel ragionamento critico e caustico di strutturare le proprie motivazioni in maniera oggettivamente sincera: il caprio espiatorio riesce a fondere, con malleabile compiacenza, una qualsiasi rilettura della società odierna, che, a sua volta, violentata dall’ebrezza della ragione, distorce l’amara consapevolezza di far parte di ciò che stiamo contribuendo a ridicolizzare. I fantomatici Millennials, quella generazione che si è posta come spartiacque infinito per descrivere la fine e l’inizio di una determinata costruzione sociale; quella generazione posta a discarica di ogni problematica sociale in atto in Europa e oltreoceano. Quella generazione che rappresenta un po’ tutti noi.
La distinzione di classe, che si è andata consolidando nel “pensiero unico” degli ultimi anni in Europa, si regge solamente sull’oggettività indiscutibile della storia. Per il resto, resta difficile pensare che i Millennials siano così sconnessi dalla crescita culturale e sociale delle generazioni che hanno caratterizzato l’Europa dagli anni del dopoguerra. Infatti, non serve citare Bergson per richiamare alla memoria un concatenamento continuo di ecceità, spasmi che hanno contribuito al consolidarsi della società moderna generazione dopo generazione.
Tuttavia, oggi sembra far comodo tenere in alto gli stereotipi, costruire etichette e barriere per aiutare noi stessi a distinguerci dagli altri. Il problema di prospettiva che si pone in questo momento è tanto più grave perché contornato da una reazione politica tutt’altro che morbida. La scelta degli italiani del quattro di marzo ha confermato il netto cambio di tendenza culturale dalla precedente classe dirigente, incapace di reagire alle dinamiche di rinnovamento che avevano preso piede sin dall’era del famigerato Renzi-rottamatore. Quell’immagine simbolica di strutturalismo rovesciato che, infine, ha fatto presa nelle nuove leve della retorica populista di sponda leghista e pentastellata, in corsa oggi per un testa a testa alle prossime, probabili, elezioni.
È appunto la necessità sempre più pressante di concentrarci su fenomeni a corto termine che ha portato la maggior parte di noi a non percepire il quadro generale di un normale adattamento a nuovi paradigmi, che, per quanto violenti o docili siano, contraddistinguono l’evoluzione della società umana da secoli.
I Millennials, allora, possono finalmente liberarsi di questa categorizzazione a cui siamo tanto abituati, per ritrovarsi oggetto di studio oggettivo e finalmente sincero.
Il vulnus di questa decostruzione quasi foucoltiana è di voler sottolineare che per quanto il populismo possa fare paura all’intera intelligencija di sinistra, non è cercando di escluderli, categorizzarli, che si potrà risolvere il problema. E invece confrontarsi, includerli nel discorso politico, l’unica forma per portare a d un processo di crescita sana della società italiana ed europea.
Perché, infatti, se osserviamo attentamente, il discorso intorno all’Europa è rimasto nel corso degli anni l’unico punto fermo su cui si potesse costruire una campagna politica. Questo non solo perché buona parte delle nuove generazioni, appunto i Millennials, sono nate nel sogno globalista e inclusivo dell’Unione Europea, trasportando con loro un rinnovato spirito borghese; ma soprattutto perché il processo di evoluzione economica per tutti i paesi europei è stato deciso in base all’istituzione di questa precisa entità molare.
I Millennials sono e rimarranno europeisti, dunque, e così anche questo populismo loro etichettatosi. Non a caso, infatti, abbiamo assistito all’ex eurodeputato Matteo Salvini che inneggiava ad una internazionale populista. Tuttavia, è importante sottolineare come non sia l’ideale di Europa che viene ricercato, bensì la necessita di essere uniti, di ricercare i propri simili e trovare una soluzione per far sopravvivere il nostro modo di vivere. La stessa generazione Erasmus risuona con rinnovato spirito nel culto populista, in netta tendenza con la difficoltà tangibile in cui si ritrova in nostro intero sistema scolastico. La condizione drammatica in cui versa il sistema universitario italiano non è solo rappresentativa di una politica di “sinistra” che ha fallito i suoi presupposti morali. Piuttosto è la chiave di lettura per comprendere una necessità di cambiamento radicale, ricercata ed espressa per mezzi comprensibilmente non convenzionali.
Il modus operandi del capitalismo ha assunto dei ritmi inaspettatamente familiari, nel suo riprodursi e mutare con un tempo diacronico. Le nuove generazioni dell’era populista sono destinate a fiorire e perire nel segno del dollaro e dell’euro, senza che possano muovere un dito. Anzi, sono sempre portate alla realizzazione di quell’ideale fratricida e puramente egoista che pretenderebbe anche di essere chiamato vita.
La divisione culturale a cui il nostro paese sta assistendo non è altro che la scelta che facciamo ogni giorno di vivere secondo queste regole. Il paradigma rivoluzionario è stato catalizzato e elargito in dosi e sostanze diverse, cangianti per ogni nostra necessità. I figli di questo capitalismo siamo noi, i Millennials, che non vogliamo poter vivere una realtà diversa da quella che ci hanno predisposto. Perché, in fondo, non è la conoscenza del fenomeno che manca ai presunti opinionisti del mondo del giornalismo o televisivo. Piuttosto, la comprensione di un cambiamento che non può essere domato.
L’Europa e i Millennials, dunque, legati insieme dalla necessità e dall’essersi ritrovati, in qualche modo, vicini in questo determinato periodo storico. La veridicità delle mie parole risiede nei forti mutamenti che si sono messi in atto tra le giovani generazioni già dall’inizio degli anni 2000 ma che oggi sembrano aver trovato un catalizzatore più ampio nell’espressione populista. Dall’Olanda di Wilders, passando per la Francia di Macron e giungendo all’italia targata Di Maio-Salvini le risposte dei Millennials alla questione Europea sono state tutt’altro che morbide, ma nascondono in esse la loro natura conservatrice che, per quanto scossa dalle nuove mode o abitudini, rimane sempre ancorata a quei principi libertari che continueranno a contraddistinguere la nostra generazione.
Quella che sottolinea l’importanza dell’Erasmus ma che ne comprende le debolezze; quella che conforta la visione di uno spazio reale e digitale in comunione, ma che si deve confrontare con l’inadeguatezza delle istituzioni nazionali. Infine, quella generazione del precariato che, nonostante tutto, non smetterà mai di credere ciecamente negli ideali di un Europa dei popoli.
Niccolò Inturrisi