Vincenzo Borrelli è un giovane fotografo campano. Sincero, preparato e soprattutto auto-ironico, esprime il suo mondo interiore attraverso fotografie che egli stesso definisce “normali”. Nei suoi lavori sono chiari i concetti che vuole esprimere ed è per questo che, senza dubbio, può essere considerato un artista a tutti gli effetti.

Per conoscere meglio il suo lavoro, come nasce, come si è sviluppato e quali sono i suoi obbiettivi, lo abbiamo intervistato.

Come ti sei affacciato al mondo della fotografia? Dal punto di vista universitario, lavorativo e ovviamente artistico.

“Lavorativo? Questo presuppone un guadagno. Mi spiego: quando millanto di fare il fotografo, o peggio ancora l’artista, è chiaramente una bugia perché con quei pochi soldi che guadagno non riesco a pagare neanche l’affitto del mio studio. Quindi, tecnicamente sono ancora uno studente. Per quanto riguarda gli inizi invece è molto semplice. Mio padre fotografava da amatore da ragazzo e mi ha trasmesso questa passione. Ho avuto però il vantaggio di iniziare dall’analogico e quindi quando con il digitale tutto si poteva fare con maggiore velocità ma con una competenza anche minore, io mi sono ritrovato ad avere competenze che magari chi mi circondava non aveva. Poi comunque, non ho mai saputo fare altro, né disegnare o cose del genere”.

E ora hai imparato a fare altro?

“Assolutamente no. Mi toglierebbe tempo alla fotografia”.

Quindi ti consideri soprattutto uno studente. Qual è stato il tuo percorso in questo senso?

“Già al terzo o quarto anno di liceo facevo le prime mostre. Ho subito capito che mi lusingava il fatto di far vedere i miei lavori esposti e ascoltare i pareri, anche negativi, di chi li guardava. Quindi ho subito capito che avrei voluto fare questo. Dopo un anno all’Orientale, mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti di Napoli. Per i primi due anni non ho fatto molto, più che altro mi sono divertito. Poi, ho fatto la prima foto del mio progetto di laurea, nel 2013. La barchetta fatta dal foglio di giornale. E lì ho avuto il mio primo consenso vero. Qualcuno mi ha detto per la primissima volta “Questa è proprio bella”“.

Chi è stato?

Fabio Donato, il docente di fotografia. Non solo lui però, ovviamente. Lì ho capito che questo progetto poteva piacere”.

Parlacene un po’.

Più che un vero e proprio progetto era uno stile grafico di pulizia, regolarità e semplicità che avevo individuato. Sono partito da un consenso e sono arrivato ad una ricerca. A differenza di quello che ho sentito dire da un altro professore di fotografia, sempre in Accademia, per il quale un artista che riceve un consenso va in replica. Qualche volta l’ho fatto anche io, è vero. Guardando però la prima fotografia che ho fatto e l’ultima, dello stesso progetto, ci sono differenze abissali. Sono partito da una cosa che mi piaceva vedere e poi ho inserito una cosa che mi piaceva pensare, tutto questo nella stessa foto“.

Per quanto riguarda il concetto di “normalità”?

“Quello è semplicemente un gioco di parole che facevo con mio padre. Quando ha visto per la prima volta le mie foto mi ha detto semplicemente “Perché fai fotografie così normali?” E questa domanda mi ha martellato per due anni”.

Quindi hai fotografato questi oggetti per farli diventare normali? 

“Il problema è che essi sono normali in partenza. Personalmente io detesto la serialità. Nel senso che mi attira in modo morboso specie quando un prodotto o un oggetto in generale diventa riconoscibile, anche spoglio o stilizzato. La barchetta è riconoscibile ovunque, in tutto il mondo. Diventa universale, diciamo“.

Questi concetti, queste considerazioni sono frutto anche di studi non inerenti specificamente alla fotografia, ad esempio di ricerche legate al cinema?

“Il cinema per me è troppo veloce. Contiene una serie di informazioni che non riesco ad elaborare e quindi non me lo godo. Con gli oggetti che fotografo invece riesco ad avere una relazione più calma. Li conosco, li studio, li posso toccare e perfino allontanare se necessario. Saprò riconoscerli sempre in seguito”.

Adesso invece di cosa ti occupi? Le tue opere dove sono esposte?

“Sto lavorando per, con e insieme a un gallerista, Giovanni Antignani, nel suo spazio A01 Fine Art Gallery. Io produco delle cose e lui si impegna a darmi visibilità, proporle a concorsi oppure a privati che possono acquistare il mio lavoro”.

Qual è il futuro che ti auspichi per la tua arte?

“Per adesso lavoro anche in altri ambiti. Sarebbe interessante entrare nell’editoria ma il pensiero comunque è sempre rivolto all’ambiente artistico. Per alcuni però, e su questo infatti non sono molto d’accordo, ogni opera può essere duplicata, ad esempio, solo tre volte. Se fosse per me invece stamperei due milioni di copie per mostrare quello che faccio a tutti. Perché le fotografie che produco non sono mie ma sono di tutti, e vorrei che il mondo in generale, ragionasse in questo modo“.

Andrea Piretti

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