Qualcuno ricorderà il capolavoro diretto nel 1964 da Stanley Kubrick, “Il Dottor Stranamore”, in cui il folle generale americano Ripper, avendo inviato con l’inganno alcuni bombardieri armati di ordigni nucleari in territorio sovietico col proposito di scatenare un conflitto atomico tra Stati Uniti e Unione Sovietica, rivelava ad un attonito Capitano Mandrake, interpretato da Peter Sellers, di essersi risolto a questo gesto estremo per impedire un diabolico piano di Mosca: inquinare i “fluidi più preziosi” del corpo degli americani attraverso la contaminazione dell’acqua potabile.

La fantasia del regista trasse spunto dall’ipotesi assurda, realmente elaborata del governo americano in piena Guerra Fredda, che il nemico bolscevico, all’atto di sferrare il suo attacco contro gli USA, avrebbe effettivamente trovato il modo per avvelenare i bacini idrografici che rifornivano le grandi città statunitensi, trasformando la risorsa più preziosa nell’arma più letale.

L’idea di usare l’acqua come strumento di guerra è antica: quando adulterata o sottratta con la forza al nemico, ha rappresentato la risorsa più efficace per ottenere la resa dell’avversario in tempi brevi e incondizionata. Senz’acqua, infatti, nulla sopravvive.

Neanche l’ISIS ci ha messo molto a realizzare che, nelle aride regioni del Medio Oriente in cui si stava facendo largo, controllare l’acqua avrebbe significato disporre della sorte di milioni di persone che, quando assetate a morte, si sarebbero finalmente convinte a supportare il Califfato. In realtà, non è che in Siria e nord Iraq di acqua da controllare ce ne fosse parecchia; i soli due grandi fiumi mesopotamici, il Tigri e l’Eufrate, rappresentano gli unici bacini in grado di offrire le quantità di acqua potabile ed energia idroelettrica sufficienti a coprire il fabbisogno della regione. Non dovette essere perciò difficile persino per Al Baghdadi capire che, se si controllano il Tigri e l’Eufrate, si controllano pure buona parte della Siria e, soprattutto, l’intero Iraq.

Così si spiega la strategia dell’ISIS che ha mirato, a partire dal 2012, a prendere il controllo di tutti i centri urbani strategici lungo i fiumi, allo scopo di riuscire ad impadronirsi delle dighe e degli sbarramenti costruiti, nel corso degli anni, per deviarne o contenerne il flusso a scopo agricolo, energetico o per rifornire la popolazione di acqua potabile. Il controllo dei rubinetti ha consentito al Califfato di assetare città e villaggi nemici e dissetare quelli alleati, nonché, in alcuni casi, di inondare strategicamente alcune aree del territorio iracheno per rendere difficile o impossibile l’avanzata dell’esercito governativo (una strategia adottata in passato anche dalle truppe di Saddam Hussein, di cui molti sono i generali passati tra le file del Da’esh): un esempio di quest’ultima tattica è stato fornito dalla distruzione della diga di Falluja, che nel 2014 ha causato l’allagamento di un’area di quasi 200 km quadrati, sommergendo campi e villaggi.

Controllare qualche diga per tenere in pugno interi Paesi è possibile perché in passato le nazioni coinvolte dal problema dell’approvvigionamento idrico hanno tentato di soddisfare le proprie necessità ognuna per conto suo. In una regione in cui cadono solo il 2% delle precipitazioni mondiali all’anno, Turchia, Siria, Libano, Giordania e Iraq hanno costruito le loro dighe e i loro acquedotti sui bacini idrici inclusi nei singoli territori, frammentando la gestione delle acque e impedendo una razionalizzazione delle risorse. Nel 2010 fu avviato un negoziato tra Ankara, Damasco, Beirut e Amman per la creazione di un progetto comune e condiviso per la soluzione del problema, ma non se ne fece più nulla.

Il risultato, oggi, è che un manipolo di criminali può permettersi di controllare almeno 7 dighe in due Paesi diversi e assetare a piacimento le popolazioni che ancora gli resistono, finché non cedono disperate.

La comunità internazionale ha capito ben presto che la questione dell’acqua è diventata centrale per le sorti della guerra contro l’ISIS. Si è sempre cercato di riconquistare in fretta ogni centro urbano indispensabile per la gestione della risorsa idrica caduto nelle mani del Califfato: così, per esempio, la controffensiva da parte dei curdi per riprendere Mosul e la sua diga, nel nord dell’Iraq, è stata immediata e di successo, anche grazie ai raid aerei della coalizione internazionale a guida USA. Del resto, non c’era scelta, perché grazie a questa infrastruttura l’Eufrate rifornisce di acqua ed energia quasi tutto l’Iraq meridionale, compresa Baghdad. Fu ipotizzato, inoltre, che i jihadisti avrebbero potuto decidere di farla saltare: a quel punto sarebbe stata la fine per la stessa capitale irachena, sommersa dalla violenza delle acque liberate dall’esplosione. Il rischio di un crollo della diga, gravemente danneggiata, non è peraltro ancora scongiurato: l’Italia è scesa direttamente in campo, con 450 militari, per proteggerla, come annunciato qualche settimana fa da Renzi.

Una battaglia simile oggi si combatte, sempre in Iraq, per il controllo di Ramadi, che da mesi vive divisa, con alcune zone in mano all’ISIS e altre (compresa la diga) riconquistate dall’esercito iracheno. Più difficile sarà invece liberare i villaggi in Siria e nello stesso Iraq che, ormai sotto il “governo” di Al Baghdadi, sono sottoposti a vere e proprie imposte sull’erogazione di acqua ed energia: l’esosità dei tributi e l’esiguità delle distribuzioni idriche ha stremato la popolazione, nonostante la propaganda islamista ami mostrare al mondo la fertilità delle zone sottomesse, riprendendo mercati colmi di freschi prodotti agricoli.

Quello dell’acqua siriana e irachena appare come un problema lontano, poco proposto dai media occidentali, che preferiscono sollecitare l’opinione pubblica piuttosto sul destino dei pozzi di petrolio, anche se, almeno per ora, pare che il greggio non si beva. Sembra però che l’ISIS abbia deciso di lanciare un’offensiva idrica anche in Europa: lo testimonierebbero i recenti video in cui si invitano i musulmani in Francia ad avvelenare l’acqua potabile, e gli arresti operati in Kosovo nei confronti di persone sospettate di voler dare seguito ad identico proposito. Altro che “Dottor Stranamore”.

Ludovico Maremonti

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