Home Cultura Arte Kabir Mokamel: i colori di Kabul, tra arte e distruzione

Kabir Mokamel: i colori di Kabul, tra arte e distruzione

Kabir Mokamel: un nome che molto probabilmente è poco noto ai più. Si tratta di uno Street artist quarantenne afghano che dal 2010 pendola dall’Australia, il luogo in cui egli risiede, a Kabul, la sua città natale, il luogo in cui abita il suo cuore.

In un Afghanistan tranciato dalla guerra sorge la sua capitale, Kabul, città di macerie, senza più storia né vita, afflitta e sfinita dalla corruzione, dalla violenza, dalle torture di un conflitto pluridecennale che infesta il paese squarciandolo dall’interno, come un demone che abita nel ventre, lasciandoci impotenti e dilaniati. Sulle poche mura restanti della città, in uno scenario di morte e violenza, Kabir ha introdotto la più eccelsa forma di civilità: l’arte. Ispirandosi al più famoso Street artist del mondo, Kabir ha dato vita ad immagini incisive, dalla bellezza potente e violenta, al punto da guadagnarsi l’appellativo di nuovo Bansky afghano.

Il suo primo lavoro è datato 2015:

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Due occhi femminili dai tratti tipicamente mediorientali fissano lo spettatore, liberi dal velo del burqa, simbolo dell’oppressione delle restrizioni di una civiltà che stenta ad evolversi, rimanendo sepolta dalla cecità dell’ignoranza. Sullo sfondo di questo dipinto, marchiato su un giallo sgargiante, si legge: “ho visto la vostra corruzione che non è nascosta agli occhi di Dio, benché voi cerchiate di nasconderla alla gente”.

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Nel resto dei lavori, si nota una spiccata presenza dell’immagine dei cuori. Cuori e bombe, cuori trasportati da carriole, da cammelli, dalle spalle dei bambini: sono i cuori di Kabul, in un Afghanistan dipinto di rosso, come il sangue in cui annega, medicato da un grosso cerotto che tenta invano di lenirne le ferite, nell’ardito desiderio di rialzarsi e non soccombere per sempre.

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I protagonisti dei lavori di Kabir sono gli eroi senza nome e senza volto: netturbini, soldati uccisi dai talebani, vittime innocenti degli attacchi suicidi: “nei punti in cui queste vittime sono state uccise, realizzeremo dei dipinti per ricordarle affinché non siano solo numeri”, ha affermato Kabir.

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Oltre che un chiaro segnale di denuncia e di protesta, i murales di Kabir fungono anche da aggregante per la comunità poiché, nel corso dell’elaborazione, l’artista coinvolge passanti, venditori ambulanti, agenti di polizia: “si tratta di un modo per le persone di recuperare lo spazio pubblico” ha sostenuto Kabir, che crede fermamente che dipingere un muro non sia soltanto una forma di espressione, ma anche una possibilità di interazione, per rispolverare antichi legami mai più coltivati.

Adesso, il Bansky afghano ha in programma la realizzazione di un’opera che porta il titolo di “Eroi della mia città”, per omaggiare la popolazione di Kabul. Si tratta di un progetto dai costi molto elevati, poiché prevede l’utilizzo di ben 32 colori. Momentaneamente Kabir si autofinanzia, ma sostiene di accettare benevolmente l’aiuto economico o il sostegno di qualche volontario tra i cittadini afghani, mentre al contrario respingerà qualsiasi eventuale forma di aiuto proveniente dal governo.

Grazie all’arte di Kabir Mokamel, le mura di Kabul si colorano di speranza e se le immagini non fermeranno certo la guerra né intimoriranno i suoi fautori, esse rappresentano comunque quell’essenza indistruttibile ed immortale che costituisce il motore che muove tutti coloro condannati a soffrire a tempo indeterminato: la speranza.

Sonia Zeno

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