Un Paese in via di sviluppo, ma ancora caratterizzato da forti disuguaglianze sociali: ecco come si presenta oggi l’Etiopia, la più grande economia dell’Africa subsahariana.

Tra gli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000, il Paese ha finalmente trovato una stabilità dapprima interna e successivamente anche nei rapporti con l’estero. La fine della dittatura di stampo comunista del DERG (1991) e la tregua nel conflitto con la vicina Eritrea nel 2000 hanno permesso all’Etiopia di iniziare ad investire nello sviluppo del Paese, e negli ultimi anni l’economia sembra averne tratto giovamento.

Il PIL infatti ha conosciuto una crescita media intorno al 10% annuo nell’ultimo decennio, che colloca l’Etiopia al 66° posto nella classifica mondiale per Prodotto Interno Lordo elaborata dalla Banca Mondiale (dati 2016).  Uno sviluppo che però non si è ampliato a tutte le fasce sociali, come dimostra il 167° posto  nella classifica riguardante il PIL pro-capite.

L’impressione generale, quindi, è che la crescita dell’economia etiope sia ancora riservata a una fetta ristretta di popolazione, in una sorta di contrasto sempre più netto tra la ricchezza emergente e una base di povertà assoluta.

Contrasto ancora più evidente se si pensa che nel 2016 l’Etiopia è stata vittima del più intenso periodo di siccità dal 1984, che ha ridotto oltre 10 milioni di persone (sui 97 milioni di abitanti complessivi) in stato di carestia. Il governo di Addis Abeba è stato in grado di contenere la crisi attraverso un programma denominato PSNP (Productive Safety Net Programme). Grazie a questo piano 6 milioni di persone sono state coinvolte nella costruzione di infrastrutture o piccoli progetti, ricevendo in cambio salari minimi accompagnati da beni alimentari.

Ma uno sviluppo così rapido sarebbe stato impensabile senza l’apporto di capitali stranieri, che ancora rappresentano tra il 50% e il 60% dell’intero bilancio nazionale.
In particolare è la Cina, anche più di USA o UE, ad essersi affermata come principale partner commerciale dell’Etiopia. E non è un caso che proprio pochi giorni fa sia iniziato il trasferimento di soldati e personale militare verso Gibuti, Paese confinante con l’Etiopia, dove sorgerà quella che sarà la prima base militare cinese permanente all’estero.

Uno dei principali progetti portati avanti dai cinesi in Etiopia è proprio la ferrovia che collega la capitale Addis Abeba con Gibuti, inaugurata nel 2016. Il progetto è costato circa 3 miliardi, e grazie a questo nuovo collegamento (lungo 756 km) il Paese è stato dotato di uno sbocco sul mare raggiungibile in tempi ridotti dell’85% rispetto alla rete stradale. Altri progetti finanziati dalla Cina sono la superstrada Modjo-Hawassa, la metropolitana aerea di Addis Abeba e la diga Gibe III, progettata tra l’altro da una ditta italiana.

Questo tipo di investimento rispecchia quello che è il modello di sviluppo che la Cina sta provando a proporre all’estero: costruire infrastrutture che diano lavoro nel Paese “ospitante”, in maniera tale da favorire poi anche il commercio da e per la Cina. Il gigante asiatico rifiuta il modello occidentale degli “aiuti” in termini di denaro, che ha più volte dimostrato di essere fallimentare: in primis perché non vi è alcun controllo sulle modalità di utilizzo dei capitali inviati, e poi perché non comporta benefici al Paese che spedisce i finanziamenti. L’approccio cinese è quindi più cooperativo, meno aggressivo e permette lo sviluppo di entrambe le parti in causa, ed è per questo che l’Etiopia ha deciso di puntare su questo legame per garantire la crescita della propria economia.

Ovviamente, non è tutto oro quel che luccica. Per la costruzione delle grandi opere volute dai cinesi, lo Stato ha spesso espropriato i terreni di contadini o piccoli proprietari terrieri, forte di una legislazione che prevede che le terre appartengano allo Stato che poi decide arbitrariamente a chi darle in affidamento. Ciò ha provocato un periodo di forti tensioni sociali aggravate dalla costruzione della diga Gibe III che, secondo molti esperti ambientalisti, avrebbe un forte impatto negativo dal punto di vista socio-ambientale.

La disillusione e la rabbia delle classi sociali più basse rischia di diventare, in una regione geograficamente molto vicina all’area mediorientale, un pericoloso bacino d’affluenza per l’estremismo islamico. Dal 1991 infatti è cresciuto a dismisura il numero di moschee e minareti, e ormai il 35% della popolazione si dichiara di fede islamica.
Di fronte alla possibilità che milioni di persone vadano a rinforzare le fila dell’ISIS o di gruppi terroristici affini, probabilmente è bene rispondere alle richieste di aiuto dei più poveri, anche a costo di rallentare quelli che sono gli spaventosi tassi di crescita dell’economia etiope.

Simone Martuscelli

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