Lavorare per vivere, vivere per lavorare, ormai il confine tra le due cose si è assottigliato fin quasi al punto di confonderle. Quello che non ci chiediamo, tuttavia, è se sia davvero necessario lavorare.

Perché lavorare fa parte della nostra cultura?

L’idea che lavorare sia fondamentale per una persona ha radici molto antiche, certo: senza caccia, pesca, raccolta e coltivazione la specie umana non si sarebbe mantenuta in vita, ed oltre al cibo era necessario produrre gli strumenti per vivere meglio, o anche solo per sopravvivere.

Molto l’ha fatto poi anche la religione: da quando San Benedetto ha rifiutato l’idea che un monaco potesse vivere di solo ascetismo grazie alle elemosine, stabilendo la regola “ora et labora”, si è sviluppata l’idea che il lavoro manuale nobilitasse l’uomo. Certo, non lavoravano i potenti, ed il potere ha fatto sì che proprio un monaco, un agostiniano di nome Martin Luther, si distaccasse dall’idea di una salvezza per grazia senza bisogno di agire per sostenere che si era già predestinati alla salvezza o alla dannazione, e che un riformatore di nome Jean Cauvin abbia insistito sul fatto che successo e fortuna in questa vita non potevano che essere l’evidenza della garanzia della salvezza nell’altra vita.

Cosa c’entra la salvezza dell’anima con il lavoro? È presto detto: nel Cinquecento, l’epoca di Lutero e Calvino, a meno che non si nascesse nobili, per avere successo e accumulare ricchezza l’unico modo ­– non esistendo la finanza speculativa come la conosciamo oggi – era lavorare.

Questa relazione è poi stata analizzata da Max Weber nel celebre saggio “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”, al quale rimandiamo volentieri per approfondire e del quale consigliamo anche la lettura delle critiche.

Lavorare per produrre non è la soluzione

Con quello “spirito del capitalismo” così intriso di “etica protestante” è nata la nazione che negli ultimi anni ha esportato nel mondo la crisi economica, grazie alla quale parole come PIL e produttività hanno fatto irruzione nei discorsi quotidiani, trasmettendo l’idea che in una crisi finanziaria che poi è diventata anche di sovrapproduzione il semplice fatto di lavorare di più, sempre e da qualsiasi luogo, diventando così delle “risorse” produttive – esattamente come le materie prime – fosse di per sé una misura utile per l’incremento del PIL. Non da ultimo, un’informazione colpevole e quantomeno disattenta, se non volutamente faziosa, ha fatto credere che il PIL pro capite e la ricchezza dei singoli individui coincidessero.

Catherine Colebrook, capo-economista dell’Institute for Public Policy Research, annuncia sul Guardian che è in progettazione un indice alternativo che consideri anche il mondo digitale, la ricerca e soprattutto fattori sociali come la sostenibilità ambientale, la distribuzione della ricchezza sia a livello geografico che sociale ed il grado di soddisfazione dei cittadini.

Se a lavorare ci pensano le macchine

Quello delle nuove tecnologie, della digitalizzazione e della produttività, del resto, è un fattore da non sottovalutare: con frequenza sempre crescente l’uomo viene sostituito da macchinari instancabili, che non hanno altro costo se non quello dell’acquisto e della manutenzione, che non interrompono mai la produzione, che non si ammalano, che non scioperano, che non percepiscono salari, che non fanno pagare tasse. Le conseguenze sono i licenziamenti di operai dagli stabilimenti. Meno gente che lavora, meno denaro che circola, meno merce comprata, meno produzione necessaria, altri licenziamenti, e la spirale si autoalimenta.

Ma se si crede ancora che “il lavoro nobilita l’uomo”, e se «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», la questione diventa ancora più complessa di quanto già non sia. Ed è palese che non tutti possano lavorare nella logistica o nella ristorazione, i settori nei quali è più difficile che siano impiegate macchine automatizzate – posto comunque che le macchine non prendano il posto degli umani anche in quei campi, ed è probabilmente solo una questione di tempo.

Che sia l’attuale sistema ad essere inadeguato ai tempi presenti e futuri, e non invece le persone, come raccontato da una narrativa basata più sul capitale-merce che sul capitale umano? Che lavorare non sia un modo per tenere occupata la mente, più che una necessità dell’uomo?

Lavorare, ma con che prospettive?

La risposta, ad oggi, non può che essere utopistica – o distopica, per chi ha letto Philip K. Dick. Possiamo immaginare società nelle quali il denaro non abbia più ragione d’essere, nelle quali chiunque possa fare (o non fare) quello che vuole, nelle quali il crimine non sarebbe necessario, oppure società in costante conflitto, o comuni anarchiche, o grandi collettivi, o l’esaltazione dell’individualismo.

Lavorare, ormai, è diventato non un modo per realizzare la propria persona, ma il mezzo per procurarsi i soldi per vivere per lavorare per vivere, alimentando un circolo vizioso.

A cosa ci siamo ridotti, quindi? Con il tempo abbiamo inventato strumenti che potevano farci lavorare meglio, con meno fatica e, per il fabbisogno che abbiamo, anche meno. Avremmo potuto dedicare più tempo alle passioni, a sentirci bene, alla ricerca della felicità e del miglioramento. Siamo finiti, purtroppo, a dannarci sempre di più, per il risultato minimo del sopravvivere. Come se in secoli di evoluzione sociale non si potesse far altro che ritornare alla preistoria.

Simone Moricca

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui