L’espressione “libertà di scelta” è sulla bocca di tutti ma nelle mani di pochi. La questione dell’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza), più comunemente chiamata aborto, costituisce un esempio di libertà a metà per migliaia di donne. Il tema non è mai stato pacifico e alcuni intellettuali nel 1978 espressero opinioni contrarie. Tra questi, Pier Paolo Pasolini.

In molti Paesi del mondo l’aborto è considerato un reato. In Polonia, abortire è vietato anche in caso di malformazioni del feto e si è da poco discusso della figura del super-procuratore anti-aborto (oltre che anti-divorzio ed anti-LGBT+). Il Presidente del Congresso Nazionale honduregno Mauricio Oliva ha dichiarato che «l’Honduras non può seguire le “orme del male” come le altre nazioni che hanno legalizzato un “atto infame” come “togliere la vita a un feto che sta crescendo». Mentre altrove, invece, la donna è libera di scegliere: in Canada l’aborto è legale in tutte le fasi della gravidanza; in Estonia, Spagna, Svezia è consentito entro i primi 90 giorni; in Colombia fino al sesto mese di gestazione. Quest’ultima è una conquista recente delle donne colombiane perché finalmente la Corte Costituzionale si è espressa a favore della depenalizzazione dell’aborto con cinque voti (su nove) favorevoli.

Credit: Archivio digitale UDI

Legge n. 194/78: la legalizzazione dell’aborto in Italia

Era il 1967 quando Gigliola Pierobon, giovane diciassettenne figlia di contadini originari della provincia di Padova, abortiva clandestinamente sulla tavola da cucina di una levatrice in cambio di lire. Cinque anni dopo, nel 1973, la sua decisione di abortire era ormai divenuta di dominio pubblico a causa del processo giudiziario che la vide coinvolta. Dopo la separazione dal marito – colui che in passato l’aveva aiutata ad abortire – e l’occupazione lavorativa in fabbrica ove aveva conosciuto il gruppo di Lotta Femminista, decise che la sua dolorosa vicenda sarebbe diventata il punto di partenza per la lotta alla depenalizzazione dell’aborto in Italia.

Bisognerà attendere (e lottare) ancora qualche anno perchè sarà nel 1978 che l’aborto verrà ufficialmente dichiarato legale, prevedendo sia quello farmacologico ossia indotto dalla somministrazione di determinati farmaci, sia quello chirurgico realizzato attraverso l’estrazione del feto o dell’embrione. Affinché possa essere considerato legale, l’intervento di IVG deve avvenire entro i primi 90 giorni dal concepimento, ad eccezione dell’aborto terapeutico che invece può essere effettuato anche al di fuori di questo arco temporale purché siano accertate condizioni mediche giudicate rischiose o incompatibili con la vita del nascituro (malformazioni, anomalie cromosomiche) o per la salute della donna in stato interessante (leucemia, cancro alla cervice, gravi patologie cardiovascolari).

Un’ulteriore delicata questione riguarda l’obiezione di coscienza. Il SSN prevede, infatti, che l’IVG sia garantita in tutte le strutture ospedaliere e che nessun professionista sanitario possa negare tale diritto. Nonostante le premesse idilliache, i dati dell’Istituto Superiore di Sanità ci mostrano come in Italia nel 2019 il 37,6% del personale medico, il 43,5% degli anestetisti ed il 67% dei ginecologi fosse obiettore di coscienza. Una mappa accurata del nostro Paese mostra il divario quindi esistente tra l’idea della libertà di scelta e la reale possibilità di scelta della donna riguardante tale delicata questione.

Credit: Ministero della Salute

A distanza di più di quarant’anni dalla legalizzazione dell’aborto in Italia, quindi, la questione è ancora al centro di numerosi dibattiti che vedono contrapporsi i sostenitori del movimento “Pro Life” che giudicano l’aborto un “omicidio legalizzato“, e gli appartenenti ai movimenti “Pro Choice” che invece sostengono la piena libertà della persona e della donna, nello specifico, alla quale deve essere riconosciuto e garantito il diritto di autodeterminarsi e decidere del proprio corpo. Un déjà vù, questo, che sembra ricondurci al ricordo della posizione antiabortista di Pier Paolo Pasolini e alle lotte femministe degli anni Settanta.

Pasolini e il movimento femminista

Ancor prima del 1978, molti intellettuali espressero pubblicamente le proprie posizioni sul tema dell’aborto. Una delle figure più emblematiche a riguardo è senza dubbio quella di Pier Paolo Pasolini, che in uno scritto pubblicato nel gennaio del 1975 sul Corriere della Sera affermò: «Nei sogni, e nel comportamento quotidiano – cosa comune a tutti gli uomini – io vivo la mia vita prenatale, la mia felice immersione nelle acque materne: so che là io ero esistente. (…) Che la vita sia sacra è ovvio. (…) Primo risultato di una libertà sessuale “regalata” dal potere è una vera e propria generale nevrosi. La facilità ha creato l’ossessione. (…) Secondo: tutto ciò che sessualmente è “diverso” è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista dei lager (nessuno ricorda mai, naturalmente, che i sessualmente diversi son finiti là dentro). (…) (L’aborto) si presenta come la più grave minaccia alla sopravvivenza dell’umanità.»

Le risposte non tardarono ad arrivare. Il mese successivo, l’attivista e giornalista Marco Pannella scriveva sull’Espresso: «Gestire in assoluta libertà e responsabilità il proprio corpo è destino indeclinabile della persona, è scelta obbligata prima ancora che rivendicazione e diritto di ciascuno.» Seguirà Italo Calvino: «Nell’aborto chi viene massacrato, fisicamente e moralmente, è la donna; anche per un uomo cosciente ogni aborto è una prova morale che lascia il segno, ma certo qui la sorte della donna è in tali sproporzionate condizioni di disfavore in confronto a quella dell’uomo.»

Poi, il movimento femminista. In particolar modo Carla Lonzi, fondatrice di “Rivolta Femminile”, nell’offrire a Pasolini un diverso punto di vista sulla questione affrontò il nesso – nato e cresciuto all’interno di una cultura patriarcale – tra la sessualità e la procreazione, sottolineando come quest’ultima, per la donna, non fosse sempre una libera scelta, bensì un’imposizione socio-culturale che andava scardinata: «Le donne abortiscono perché restano incinte. Ma perché restano incinte? (…). L’uomo ha lasciato la donna da sola di fronte alla legge che non le permette di abortire: da sola, umiliata ed emarginata dalla società. Un giorno, lui finirà col lasciare la donna di fronte ad una legge che non le impedirà di avere un aborto: da sola, valorizzata e parte di una società. Ma le donne si stanno chiedendo: per il piacere di chi sono rimasta incinta?»

Una riflessione, quella della Lonzi, che ha cercato di offrire non solo a Pasolini un’attenta analisi della questione soffermandosi sul ruolo della società patriarcale che ha attribuito alla donna – come conseguenza di una maggiore libertà sessuale – il compito della procreazione, rendendo in questo modo l’aborto un atto indegno e pertanto punibile. Il desiderio di Carla Lonzi e del movimento femminista era, dunque, quello di vincere il patriarcato e comunicare una nuova immagine della libertà sessuale e dei diritti da essa derivanti. Scriveva: «Il nostro obbiettivo non era negare la libertà di aborto, ma cambiare il suo significato nella coscienza di chi continuerà a subirlo (…) e a imporlo».

E mentre questa corrispondenza tra parole e pensieri riempiva le pagine dei quotidiani, molte donne si autodenunciavano pubblicamente per aver interrotto gravidanze indesiderate ed altre, sostenute da alcune associazioni nate in quegli stessi anni – come il CISA (Centro Informazione Sterilizzazione e Aborto) – volte ad offrire supporto pratico e legale, scendevano in piazza. Fu l’anno della svolta grazie all’introduzione della Legge n. 194/78 “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria di gravidanza”. Seguirà l’opposizione della Chiesa e dei partiti cattolici che porterà ad un referendum abrogativo nel 1981, con esito negativo.

Due date importanti per le donne e per la conquista di un diritto per cui a lungo si sono battute. Oggi però, a distanza di anni, l’immagine della vittoria si fa sempre più sfocata. Il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta sono minate dal paradossale osannare il diritto alla vita per un embrione che ancora la vita non l’ha conosciuta, negando alla donna di poter autonomamente decidere della propria vita, quella vissuta e quella ancora da vivere.

Quotidianamente si parla di diritti delle donne, ma davvero stiamo imboccando la strada del progresso? Il passato è dietro l’angolo, un solo passo falso potrebbe comportare la caduta verso il baratro e la perdita di quanto sino ad oggi conquistato.

Aurora Molinari

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