Autonomia differenziata, cosa succede adesso?
Fonte immagine: giuslavoristi.it

Il dibattito sull’autonomia differenziata in Italia ha recentemente raggiunto un nuovo punto di riflessione, grazie alla pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale del 4 dicembre. Già lo scorso 14 novembre erano state rese note le parti salienti della decisione attraverso un comunicato ufficiale, ma solo ora è possibile esaminare le motivazione che hanno condotto la Consulta a prendere questa posizione. Un’importante pronuncia che arriva in un momento cruciale, in quando la questione dell’autonomia delle Regioni è al centro di un acceso confronto politico e istituzionale, dopo l’entrata in vigore del provvedimento avente a oggetto le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario nei mesi scorsi. L’autonomia differenziata, che si traduce in una maggiore autonomia legislativa, amministrativa e fiscale a livello regionale, è al centro delle agende politiche di alcune Regioni, in particolare quelle del Nord, come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che da tempo chiedono una maggiore autonomia in base all’articolo 116 della Costituzione.

Le richieste di maggiore libertà operativa rientrano in un più ampio dibattito politico-amministrativo riguardo alla decentralizzazione delle competenze in Italia, con le Regioni che mirano a ottenere maggiore controllo sulle proprie politiche locali, soprattutto in settori cruciali come la sanità, l’istruzione e la gestione dei fondi europei.

Da un lato, i sostenitori di questo progetto ritengono che esso possa portare a una maggiore efficienza e a una gestione più diretta dei bisogni locali; dall’altro, i detrattori temono che possa minare l’unità nazionale e creare ulteriori disuguaglianze fra le Regioni. La bocciatura più importante arriva sicuramente dalla Commissione Europea, che attraverso il Country Report 2024 ha evidenziato l’enorme rischio di aumento delle disuguaglianze regionali e ha parlato di un pericolo per la coesione e le finanze pubbliche del Paese.

In relazione a ciò, la sentenza della Corte costituzionale intacca il fondamento stesso del progetto autonomista perseguito dalla maggioranza di Governo e, in particolar modo, dalla Lega: l’idea che – citando il manifesto – «regionale sia, sempre e comunque, meglio di statale». 

Il quadro normativo relativo all’autonomia differenziata

L’autonomia differenziata si inserisce nel quadro del Titolo V della Costituzione italiana, che prevede un modello di organizzazione territoriale basato sulla divisione di competenze tra Stato e Regioni. La riforma costituzionale del 2001 ha, inoltre, introdotto una serie di disposizioni che hanno dato maggiore margine di azione alle Regioni, riconoscendo loro una più ampia autonomia legislativa in una serie di ambiti.

L’articolo 116 della Costituzione disciplina l’attribuzione di forme di autonomia in base a specifiche esigenze e caratteristiche del territorio. Questo però, come ha sottolineato la Consulta, in vista della tutela del bene comune e dei diritti dei cittadini senza, con ciò, mettere in ombra il principio di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni fra Stato e Regioni.

La cosiddetta Legge Calderoli, difatti, attribuisce alle Regioni la possibilità di legiferare non solo sulle materie di competenza concorrente, ma anche sulle tre materie che l’articolo 116 della Costituzione definisce di competenza esclusiva dello Stato. Ciò ha destato perplessità e timori circa il rischio di un ampliamento del divario fra le Regioni del Nord Italia e quelle del Sud, e, dunque, delle disuguaglianze territoriali. Ne è conseguito, negli scorsi mesi, una raccolta firme per un eventuale referendum abrogativo del disegno di legge.

Le questioni di costituzionalità della legge

La sentenza ufficiale risulta essere ancora più dura di quanto era dato ipotizzare dal comunicato dell’Ufficio Comunicazione e stampa della Corte Costituzionale del 14 novembre. Quest’ultima, infatti, ritiene non fondata la questione di costituzionalità dell’intera legge sull’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, ma considera, invece, illegittime specifiche disposizioni del medesimo testo legislativo. La sentenza esclude che possano esserci considerevoli trasferimenti di competenze dallo Stato alle regioni sulle materie più importanti, quali istruzione, energia, commercio con l’estero, ambiente, professioni, telecomunicazioni, porti e aeroporti.

La Corte si è espressa sul tema a seguito di alcuni ricorsi presentati dalle Regioni Puglia, Toscana, Sardegna e Campania, affermando che, pur riconoscendo la legittimità delle richieste di autonomia differenziata da parte delle Regioni, queste non devono mai compromettere l’uguaglianza dei cittadini italiani, né alterare il principio di equità nella distribuzione delle risorse e dei servizi su tutto il territorio nazionale.

La Corte, come si legge nel comunicato, ha ravvisato l’incostituzionalità dei seguenti profili della legge:

  • la possibilità che l’intesa tra lo Stato e la regione e la successiva legge di differenziazione trasferiscano materie o ambiti di materie, laddove la Corte ritiene che la devoluzione debba riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative;
  • il conferimento di una delega legislativa per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (LEP) priva di idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale viene rimessa nelle mani del Governo, limitando il ruolo costituzionale del Parlamento;
  • la previsione che sia un DPCM a determinare l’aggiornamento dei LEP;
  • il ricorso a DPCM per la determinazione dei LEP, sino all’entrata in vigore dei decreti legislativi previsti dalla stessa legge per definire i LEP;
  • la possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, prevista per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;
  • la facoltatività, piuttosto che la doverosità, per le regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;
  • l’estensione della legge n. 86 del 2024, e dunque dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle regioni a statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali.

Uno dei principali temi affrontati dalla Corte riguarda la necessità di garantire che il processo di devoluzione delle competenze alle Regioni non violi i principi di equità e di solidarietà. La Corte ha posto particolare enfasi sul fatto che, affinché le Regioni possano esercitare una maggiore autonomia, devono essere rispettati i principi di coesione sociale e di uniformità dei diritti dei cittadini. Sicuramente non viene esclusa l’effettiva possibilità di attribuire maggiori poteri alle regioni, nell’ottica di promozione del pluralismo istituzionale, ma sempre nella cornice costituzionale che vede «la Repubblica come una e indivisibile».

Ha, inoltre, messo in evidenza la necessità di garantire che le risorse destinate alle Regioni siano adeguate e distribuite in modo equilibrato. Le Regioni che acquisiscono maggiore autonomia in ambito fiscale devono essere in grado di gestire correttamente le risorse a loro disposizione, in modo che ciò non vada a detrimento delle altre Regioni. È necessario, dunque, «uno standard uniforme delle stesse prestazioni in tutto il territorio nazionale». L’equilibrio economico tra le diverse zone del Paese è un aspetto fondamentale per evitare che l’autonomia differenziata finisca per accentuare le disuguaglianze territoriali già fortemente presenti in Italia. L’autonomia differenziata, dunque «non è incostituzionale in sé» – si legge nelle motivazioni – «può essere occasione di sviluppo dei criteri di sussidiarietà, ma per esserlo ha bisogno di correzioni dei suoi meccanismi fondamentali».

Toccherà adesso al Parlamento intervenire per modificare radicalmente la legge Calderoli per eliminare le componenti d’incostituzionalità del provvedimento partendo, innanzitutto, dalla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), affinché non divengano uno strumento foriero di disuguaglianze economico-sociali sul territorio nazionale.

Resta ora da capire se il Governo vorrà continuare a perseguire il sogno autonomista, oppure deciderà di mettere da parte quello che per molti cittadini italiani potrebbe rivelarsi un incubo. Ciò che è certo è che, senza modifiche significative, la legge Calderoli rischia di non portare a una maggiore responsabilizzazione delle classi dirigenti regionali, ma a una drastica e ulteriore frammentazione delle politiche pubbliche nazionali. Così si acutizzerebbero le disparità territoriali, sempre più evidenti dall’Unità a oggi, sia in termini di redditi pro-capite, sia di politiche sociali. Inoltre, persiste il medesimo problema: lo storico divario regionale italiano, e le spinte autonomiste fanno emergere quanto sia ancora lontana la possibilità di un’Italia unita, non soltanto dal punto di vista formale. L’autonomia differenziata è l’ulteriore riprova della cristallizzazione di una distanza apparentemente incolmabile fra il Nord e il Sud Italia, mentre resta taciuta la tematica che dovrebbe scuotere profondamente l’opinione pubblica e il dibattito politico, cioè la mai tramontata questione meridionale.

Celeste Ferrigno

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