Il 24 giugno, in anticipo di quasi un anno e mezzo sulla data prevista, i cittadini turchi saranno chiamati a votare nelle elezioni tanto per il presidente quanto per la composizione del Parlamento. Dopo il referendum del 17 aprile 2017 e il passaggio della Turchia da un sistema parlamentare ad uno presidenziale esecutivo, l’attuale presidente Erdoğan sembra avere fretta di capitalizzare il consenso acquisito negli ultimi anni.

Dopo 16 anni di governo dell’AKP – il partito di Erdoğan vinse l’elezioni generali per la prima volta nel 2002 e, per il momento, detiene il record di longevità nella storia della democrazia turca – ci sono pochi dubbi su una sua vittoria alle presidenziali. Tuttavia pare che Erdoğan, che già al referendum di aprile era riuscito a far trionfare il “sì” con una maggioranza risicatissima (senza considerare le accuse mosse dall’OSCE ossia l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea, secondo il quale il referendum non si è svolto secondo gli standard internazionali), non sarà in grado di vincere solo grazie agli elettori dell’AKP.

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Il presidente Erdoğan con il suo alleato di estrema destra Devlet Bahçeli [Sputnik Türkiye]
Per quanto riguarda le elezioni parlamentari, la coalizioneAlleanza del Popolo” formata dall’AKP, dal MHP (partito della destra nazionalista guidato da Devlet Bahçeli) e da alcuni partiti minori spera, con la chiamata alle elezioni anticipate, di non dare il tempo all’opposizione di organizzarsi.

D’altra parte, l’opposizione, conscia dell’enorme potere che il presidente esecutivo avrà nel nuovo sistema, ha creato una coalizione anti-Erdoğan che mette insieme partiti dalle ideologie disparate come il recentemente nato IYI (nazionalista, liberale e conservatore), il CHP (Partito Popolare Repubblicano, antico partito secolare di centro-sinistra, figlio dell’eredità kemalista) e il Partito Democratico (destra moderata).

Tuttavia la vera preoccupazione della comunità internazionale riguarda lo svolgimento democratico delle elezioni in Turchia.

Dal fallito colpo di stato del luglio 2016 la Turchia è in “stato di emergenza”. Già nel 2017 l’Unione Europea pubblicò un controverso report sullo stato dell’ammissione della Turchia nell’Unione, accusando il presidente Erdoğan di aver strumentalizzato la situazione per procedere all’eliminazione dell’opposizione con misure “sproporzionate”.

Con 78.000 arresti e più di 110.000 impiegati statali licenziati, con l’accusa di collegamenti col ‘gülenismo’ (il predicatore e uomo d’affari Fethullah Gülen, che dal 1999 risiede negli Stati Uniti, è accusato da Ankara di essere l’ideatore del colpo di stato), le purghe di Erdoğan hanno colpito tutti i settori della società, dall’esercito alle università, dai tribunali a, ovviamente, la classe politica.

Durante la campagna elettorale per il referendum del 2017, paesi come Germania, Danimarca, Austria e Paesi Bassi proibirono, per motivi di sicurezza, i comizi dei politici vicini a Erdoğan, decisione che incontrò la ferma condanna del presidente turco. Inoltre, secondo la BBC, ad oggi più del 90% della stampa turca è apertamente filo-governativa, anche questa una conseguenza della repressione di massa seguita al fallito colpo di stato.

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La società civile si oppone alla repressione di Erdoğan in Turchia [Eunews]

I cittadini turchi potranno davvero esercitare il diritto di voto in queste circostanze? La questione rimane dubbia.

Le principali questioni su cui si scontrano i candidati alle presidenziali sono l’economia e la guerra in Siria. La lira turca si trova attualmente in una condizione di forte debolezza, con un’inflazione dell’11% e un tasso di cambio con il dollaro statunitense più basso della storia. La causa è proprio l’instabilità del paese insieme al deterioramento delle relazioni tanto con gli Stati Uniti quanto con l’Unione Europea.

Tuttavia la questione principale sembra essere la politica estera. Nonostante tutto, la Turchia rimane uno dei principali alleati dell’Occidente in Medio Oriente, nonché tra i maggiori importatori dell’industria bellica italiana, francese e tedesca. Mentre Erdoğan non ha mai smesso di sostenere la candidatura della Turchia all’Unione Europea, allo stesso tempo ha tentato di stabilire una politica estera islamista e “neo-ottomanista”.

A partire dal 2011, con lo scoppio della Primavera Araba, la Turchia ha sostenuto le rivoluzioni contro i regimi nazionali e l’opposizione al regime di Bashar al-Assad, cercando di assumere la leadership regionale soprattutto in funzione islamista e panaraba. In questo stesso periodo, dal punto di vista della politica interna, c’è stata un’apertura del ‘sultano’ nei confronti della minoranza curda, unita allo smantellamento dello stato secolare turco in favore della costruzione di un’identità turca sunnita, aldilà delle differenze etniche e linguistiche.

In seguito, la fine del momento d’oro islamista nei paesi arabi (il colpo di stato militare in Egitto che ha deposto il governo islamista di Morsi) e il ritorno dell’irredentismo curdo (i curdi siriani con l’appoggio degli Stati Uniti sono diventati uno dei principali attori della guerra in Siria) ha significato un avvicinamento di Ankara all’asse russoiraniano.

La situazione è diventata caotica anche dal punto di vista interno: si sono susseguiti gli attentati e la repressione, scatenando una spirale di violenza tra il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e il governo di Erdoğan che ha significato, tra l’altro, la repressione del partito democratico filocurdo (HDP) dalla scena politica turca con l’accusa di terrorismo dei suoi maggiori esponenti.

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“An assassination in Turkey” foto dell’anno al World Press Photo 2017 [Burhan Ozbilici]

L’abbandono della solidarietà islamica e del sogno ottomano a favore di un ritorno al nazionalismo di matrice turca e conservatrice possono spiegare l’attentato ai danni dell’ambasciatore russo nel dicembre 2016.

Se un’ampia fetta degli elettori dell’AKP, perlomeno all’inizio del suo governo nel 2002, lo scelse come voto di rottura contro un establishment corrotto e un’economia in declino, le politiche islamiste del partito hanno, nel corso di questi 16 anni, reislamizzato effettivamente il paese e il bacino elettorale.

D’altra parte, gli sviluppi recenti dimostrano quanto il regime di Erdoğan abbia tradito le aspettative dei suoi stessi elettori in nome della sicurezza e della realpolitik.

In fin dei conti, con la stampa messa a tacere e la repressione di stato ormai all’ordine del giorno, sembra chiaro che l’opinione degli elettori non sia la più pressante delle preoccupazioni di Erdoğan. Molto più importante sembra invece per lui continuare a corrispondere agli interessi economici dei suoi alleati internazionali, per continuare a perseguire i suoi progetti di potere interno e di espansione esterna.

Difficilmente la già molto instabile democrazia turca uscirà vincitrice da queste elezioni, il cui risultato sembra ormai scontato. Il rischio è quello di un sempre maggiore accentramento del potere nelle mani di quello che vuole apparire come l’uomo forte del paese, Recep Tayyip Erdoğan, nel silenzio della comunità internazionale, la quale non smette, a sua volta, di mettere gli interessi commerciali e politici davanti al rispetto dei diritti umani e dei valori democratici.

Claudia Tatangelo

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