gattuso fallimento
fallimento


Diventa semplice parlare dopo una sconfitta, forse inopportuno, ignobile, assistere ai commentatori di post che come corvi in picchiata si abbattono sul corpo sanguinante del malcapitato. Mai additare chi ha fallito o chi sta fallendo. Almeno non esplicitamente, in faccia. Per decenza, costume, ipocrisia, autorità. Meglio conservare sulla punta della lingua le parole di feroce biasimo quando il sangue ancora sgorga caldo, meglio lasciarle nel privato delle chat, nella battutina detta alle spalle, magari al termine di un’intervista.

Siamo abituati così, anche noi. Mai un “te lo sei meritato” quando il professore ti ha segato all’esame. Mai un “forse erano migliori di te” quando il colloquio non è andato bene. Mai un “stai lì con posto fisso con tredicesima e quattordicesima solo perché sei raccomandato”. Invece, sempre quel trucco da pagliacci, quel fondotinta di ipocrisia, che ci aggiusta l’espressione, addolcisce le parole, ma non risparmia il pensiero; sempre indosso quella giacca a doppiopetto da autoconvincimento ti “Hey, mi sono fatto da solo” perché il fallimento è un’onta irricevibile. Inoculato il modello dei vincente a tutti i costi, il fallimento “non è contemplato” come dicevano nella pellicola americanissima di Apollo XIII. Il fallimento, au contraire, dovrebbe essere lo spiraglio di luce nel buio profondo, dovrebbe essere bramato con disperato desiderio quando si è nella palude dell’insindacabile realtà; il fallimento dovrebbe essere atteso come una liberazione quando si è troppo lontani dagli orizzonti sperati. Un fine delle trasmissioni verso le pressioni, verso le parole uscite da ogni apparecchio mediatico, dalle pretese di sconosciuti e signori nessuno, spiriti giudicanti senza sostanza. E invece no, spesso il fallimento è rimandato, procrastinato fino allo sfinimento, volto all’annichilimento di chi sta per fallire, diventando un accanimento terapeutico del caso o degli uomini che sono chiamati a decidere.

Ora Rino è la mascotte fatta carne che ridicolmente è inciampata sugli spalti

È il caso, purtroppo, di Gennaro Gattuso. La sua immagine pubblica ha schiacciato ciò che di sostanziale rimaneva del Gattuso sostanza, l’ha dissipata. La celeberrima carica che il mister sapeva dare si suoi compagni, la rabbia irreprimibile nel rettangolo verde, il coccodrillo pronto a scattare, il ghepardo che si attaccava alla giugulare di compagni e avversari, ha lasciato spazio a un un buontempone dagli occhi abbassati con la battuta pronta dello zio brillo la domenica, a un ripetitore remissivo, asservito al padrone e assertivo verso i nemici giornalisti. La sua verità, il suo parlare schietto e senza filtri, si è trasformato paradossalmente in una retorica del vero e della verità a tutti i costi, venduta a buon mercato per le orecchie di chi gli aveva affibbiato l’etichetta dell’ autentico in un mondo di cialtroni. Ora Rino è la mascotte fatta carne che ridicolmente è inciampata sugli spalti, un uomo che non ha partecipato alla grande finzione, un illuso che credeva si potesse vivere questo mondo (quello del pallone) senza illusione, un minorato dal punto di vista professionale da commiserare sotto una finissima coltre di rispetto, per il passato glorioso.

Aurelio De Laurentiis, uomo di mirabile lungimiranza, ha fatto bene a indire il silenzio stampa. Sia fatta lode a lui. Gattuso, campione del mondo, uomo di valori pubblici ammirati, non meritava ancora quelle algide parole di compatimento, la critica con il freno a mano tirato di ex calciatori e compagni, oggi giornalisti. Non meritava la pietà disonorevole che si concede agli sconfitti, senza l’onore delle armi, sul campo di battaglia.

Davvero ci sono altre parole? Di sicuro non sarebbero gentili, potremmo sciorinare dati, rintracciare con la lanterna della speculazione, dei “se” e dei “ma”, i perché di tale situazioni, trovare responsabilità gargantuesche che prescindono dal campo, dai moduli e dal fallimento di mister Gattuso. Ma davvero, meriterebbe tutto questo Rino?

Enrico Ciccarelli

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