PNRR - Piano nazionale di resistenza e resilienza
Mario Draghi presenta il Recovery Plan (PNRR) Fonte immagine: Linkiesta

“Resilienza” è uno dei termini più in voga da quando la pandemia da covid-19 è entrata violentemente nelle nostre vite. Esso viene associato, nella narrazione quotidiana dei media e della classe politica, ad una sorta di “resistenza” e “rinascita”: non a caso il piano di ripresa economica prende il nome di PNRR ovvero di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza inviato il 29 aprile a Bruxelles per poter accedere ai fondi del Recovery Fund.

Per la Treccani resilienza è «la capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi» ed è, per l’appunto, proprio questo che ci viene più o meno esplicitamente richiesto: bisogna salvare il nostro modello economico e di società, dobbiamo assorbire l’urto provocato dalla crisi e modificare le nostre abitudini magari rinunciando anche a qualche diritto. Per Enrico Mentana, ad esempio, se esiste il problema della disoccupazione per giovani e donne è semplicemente perché in Italia «ci sono troppi lavoratori garantiti». Questa è la narrazione dominante. Siamo dei privilegiati, abbiamo troppi diritti, dobbiamo sacrificarci in nome di un bene più grande. Cambiare noi per non cambiare nulla, è questo che sostanzialmente ci viene richiesto quando sentiamo parlare di resilienza, e la struttura del PNRR conferma tutto ciò.

Il PNRR nel dettaglio

Il PNRR si divide in sei obiettivi prefissati da Bruxelles: digitalizzazione, transizione verde, mobilità sostenibile, istruzione e ricerca, inclusione e coesione, salute, a cui si aggiungono 4 riforme, ovvero giustizia, PA, semplificazioni e concorrenza. Valutando le risorse a disposizione è facilmente intuibile che la famosa “potenza di fuoco” di cui si parla non esiste: 200 miliardi (di cui 70 a fondo perduto) da spalmare in 6 anni si rivelano già ad una prima valutazione insufficienti. Il vero problema non è però l’inconsistenza quantitativa del piano, bensì la logica che lo sottende: ancora una volta fondi pubblici erogati a sostegno delle imprese.

Andando ad analizzare la parte del PNRR sulle politiche per il lavoro, ad esempio, balzano subito agli occhi i circa 20 miliardi di euro stanziati per contrastare il fenomeno della disoccupazione soprattutto tra giovani meridionali e donne. Il problema è però di fondo: per quanto giusti possano essere gli obiettivi prefissati, ciò che lascia alquanto perplessi sono le modalità di esecuzione degli stessi, le quali, rimarcano quelle stesse logiche e dinamiche responsabili di molti mali del nostro paese.

Innanzitutto si continua a parlare del concetto di “autoimprenditorialità” e dell’investimento delle suddette risorse per migliorare le “competenze” e la “produttività” delle PMI. Tale tessuto socio-economico, ovvero quello delle PMI (tra i 10 e il 249 addetti) e delle microimprese (fino a 10 addetti) che costituiscono rispettivamente circa il 5% e il 94% delle imprese italiane hanno dimostrato una estrema fragilità di fronte alle crisi socio-economiche che si sono susseguite negli anni e, tali difficoltà, si sono riversate direttamente nello sviluppo e nella crescita del paese.

Le PMI, per quanto costituiscano una parte fondamentale del tessuto economico del paese, non possono essere l’unico modello produttivo di riferimento: la pandemia ha messo in evidenza enormi carenze in questo settore che non è stato in grado di produrre alcun bene necessario a fronteggiare la crisi sanitaria: né mascherine, né respiratori, figurarsi vaccini. Vista la forte dipendenza dalle importazioni e visti gli scarsissimi investimenti nella ricerca, piuttosto che spingere ancora di più le persone ad affacciarsi nel mondo d’impresa, forse sarebbe stato auspicabile destinare i fondi del PNRR a grandi aziende a partecipazione pubblica che potessero rilanciare la ricerca, lo sviluppo e l’occupazione con un lavoro non precario e con un’attenzione particolare all’ambiente e all’ecosostenibilità.

Inoltre, si continua a sostenere la formazione come strumento per «migliorare la mobilità dei lavoratori», come se il dramma delle emigrazioni dal Mezzogiorno non fosse già una piaga per il paese. Per di più, tale formazione, di cui ne beneficeranno prettamente le aziende, sarà a carico della collettività; come si legge all’interno del documento: «è rafforzato il Fondo nuove competenze, istituito sperimentalmente nel 2020 per consentire alle aziende di rimodulare l’orario di lavoro, al fine di favorire attività di formazione sulla base di specifici accordi collettivi con le organizzazioni sindacali. […] Si assicura l’aggiornamento professionale richiesto mettendo in capo alle risorse del Fondo il costo delle ore trascorse in formazione.»

Anche per quanto riguarda la ricerca nel PNRR, i fondi pubblici vengono stanziati per sostenere il “modello impresa”: il capitolo sulla ricerca si intitola “dalla ricerca all’impresa”, il che è tutto dire. Si conferma, infatti, il ruolo delle università in funzione delle imprese come bacino da cui attingere forza-lavoro qualificata, precaria e a basso costo: «particolare attenzione è riservata all’investimento sui giovani ricercatori e a favorire la creazione di partnership pubblico/private di rilievo nazionale o con una vocazione territoriale» si legge all’interno del documento, ma sappiamo benissimo quanto precari e sottopagati siano i giovani ricercatori in Italia.

Basta infatti leggere il punto riguardante gli investimenti del MUR nel quale verranno finanziati fino a 15 programmi di ricerca ed innovazione nei quali saranno stanziati fino a 100 milioni per programma che serviranno ad assumere una media di 100 ricercatori a programma con un contratto a tempo determinato; uno degli obiettivi principali è anche quello di aumentare la quota di ricercatrici, facendo salire la percentuale dal 34% al 40%: parità di genere precaria, potremmo chiamarla.

Dunque, sebbene la crisi del 2008 prima e la pandemia poi abbiano evidenziato tutti i problemi che uno Stato può avere quando dismette le sue funzioni sottomettendosi ai precetti del mercato, il PNRR è un testardo tentativo di riaffermare i dogmi del neoliberismo nascondendoli dietro al concetto di resilienza nonostante essi siano stati ampiamente smentiti dalla realtà dei fatti.

Se «errare è umano, perseverare è diabolico», come diceva Seneca, allora quanto diabolici sono i nostri governanti?

Nicolò Di Luccio

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