Sabato 26 giugno, prima della partita dell’Italia contro l’Austria valida per gli ottavi di finale degli Europei, gli Azzurri hanno deciso di non inginocchiarsi, non compiendo così un gesto simbolico a sostegno della protesta contro il razzismo che sta venendo portata avanti dal movimento Black Lives Matter. Già dopo la partita contro il Galles, all’inizio della quale solo cinque calciatori hanno imitato il gesto dei gallesi inginocchiandosi, l’Italia era stata quasi “costretta” a prendere una posizione ufficiale in merito. Di conseguenza, prima della partita contro l’Austria, la nostra nazionale ha finito letteralmente per “lavarsene le mani”, sostenendo che si sarebbe inginocchiata solamente su esplicita richiesta degli avversari. Ma così facendo, pur non volendo, i giocatori non hanno fatto altro che assumere una posizione netta in merito al razzismo: hanno mostrato la loro “innocenza bianca”.
Con il termine “innocenza bianca” si fa riferimento al modo di pensare a noi stessi e di vivere nella società. Noi italiani, infatti, pensiamo spesso di essere una nazione etica e un avamposto della giustizia e dei diritti civili. Siamo convinti (ed orgogliosi) delle nostre presunte posizioni progressiste nell’ambito di ogni dibattito, come sta emergendo in questi giorni in merito al Ddl Zan e ai diritti della comunità LGBTQ+. Ma, soprattutto, riteniamo di essere straordinariamente ospitali nei confronti dei migranti e di essere assolutamente antirazzisti. L’unico tipo di razzismo infatti lo individuiamo nelle pratiche dei partiti e dei movimenti di estrema destra come Fratelli d’Italia, CasaPound e Forza Nuova, o al massimo nella Lega di Matteo Salvini. Fondamentalmente, questa auto-rappresentazione ci invita a pensare che non siamo razzisti e che nulla di ciò che diciamo o facciamo può essere qualificato come comportamento razzista.
Ma come è possibile per una nazione che è stata una potenza imperiale per molti anni, immaginare che questa storia non abbia lasciato tracce nella cultura, nella lingua, nella sua concezione di sé? La nostra storia coloniale, che abbiamo in gran parte “dimenticato”, svolge un ruolo vitale – ancorché non riconosciuto – nei processi dominanti di creazione di significato nella società italiana, inclusa la propria identità. Eppure, il razzismo è generalmente visto come un comportamento alieno, proveniente dagli Stati Uniti o altrove, ma che non è applicabile in Italia. Abbiamo infatti dimenticato il nostro passato imperiale, in modo che le sue logiche e i suoi retaggi possano continuare a fare il loro lavoro, inosservati. Di conseguenza ci sentiamo innocenti di fronte a comportamenti di razzismo, anche se invece non lo siamo.
Definire la razza come una grammatica fondamentale nella società, proprio come il genere, come la sessualità, come la classe e come la specie, significa vedere come colloca le persone in posizioni diverse e accorda loro un valore e un trattamento differenziati. La razza determina, in larga misura, chi siamo e come siamo visti all’interno della società, quali sono i nostri orizzonti e dove possiamo arrivare. La razza quindi è una categoria socialmente costruita che ha effetti reali e mutevoli nel mondo e un impatto reale, tangibile e complesso sul senso di sé di un individuo e sulle sue possibilità di vita. Ed anche quando utilizziamo termini quali “etnia” e “cultura” per sostituire il valore biologico che ricopre il concetto di “razza”, la concezione discriminatoria di queste categorie sociali non cambia affatto.
Di conseguenza, questa struttura profonda di disuguaglianza che si basa sull’idea di razza si è enormemente manifestata prima della partita dell’Italia. Gli Azzurri hanno mostrato la loro innocenza bianca, ovvero quanto sia incredibilmente difficile per le persone parlare di bianchezza. Cosa che invece non succede quando si tratta di parlare di musulmani, di neri, di qualsiasi altra categoria. Ma è inutile indignarci, perché questo non vale soltanto per i nostri giocatori di calcio. Non è un caso infatti se la morte di dell’afroamericano George Floyd ha causato tanto clamore, mentre quella del 27enne Camara Fantamadi che tornava dal lavoro dai campi in provincia di Brindisi è passata letteralmente inosservata, o ancora peggio, come normale.
Per questo motivo, la nazionale di calcio italiana ha sicuramente perso un’opportunità per dare il buon esempio. Si sa che palcoscenici quali gli Europei di calcio hanno una visibilità mondiale e giocatori di livello internazionale come Bonucci, Chiellini e Verratti possono spostare gli equilibri non solo sul terreno di gioco, ma anche all’interno della società. Tuttavia, non bisogna criticare la nazionale di calcio facendo finta che il problema del razzismo risieda soltanto nel mondo del pallone, mentre invece non ci riguarda da vicino. La nazionale di calcio, infatti, non ha fatto altro che rappresentare un sentimento diffuso nella nostra società. Pertanto dovremmo incominciare a mettere in discussione la nostra innocenza bianca e rivedere i nostri atteggiamenti razzisti, se vogliamo sensibilizzare i nostri giocatori e pretendere che si inginocchino prossimamente in sostegno della lotta contro il razzismo.
Gabriele Caruso