Libertà a caro prezzo (fonte immagine: ufficio stampa ERF edizioni)

Giovanni Capurso nel suo ultimo saggio ha raccontato una delle pagine più buie della Resistenza e della storia italiana, tracciando il percorso biografico di Gioacchino Gesmundo – e di don Pietro Pappagallo.

Libertà a caro prezzo

fonte immagine: ufficio stampa ERF Edizioni)

Intransigente e tenace, Gioacchino Gesmundo è uno dei martiri per la libertà a cui la nostra Repubblica è debitrice. Le vicissitudini familiari e il contesto semplice e rurale del paese nel quale visse da giovane lo portarono a maturare una forte sensibilità per la giustizia sociale.
Dopo numerosi sacrifici, a Roma realizzò la sua vocazione di intellettuale come maestro elementare, professore di Filosofia e Storia e assistente all’Università. Erano gli anni della dittatura. La sua formazione ed emancipazione economica avvennero parallelamente alla graduale insoddisfazione e al disagio verso il clima politico presente nel paese. La caduta del regime segnò la sua decisione di iscriversi al Partito Comunista, frutto di una lunga maturazione interiore.
Con l’occupazione nazista di Roma la sua attività s’intensificò: ospitò nella sua casa di via Licia, prima la redazione clandestina de “L’Unità” e poi l’arsenale dei GAP romani. Fu capo locale del controspionaggio e teneva corsi di formazione ideologica ai compagni di lotta.
Catturato il 29 gennaio 1944 dopo una denuncia, fu tra i primi tre individuati dei 335 martiri delle Fosse Ardeatine.

Libertà a caro prezzo. Gioacchino Gesmundo e le Fosse Ardeatine (Edizioni Radici Future, 2025) è un libro che analizza le vicende che portarono all’eccidio delle Fosse Ardeatine; Giovanni Capurso – saggista e storico meridionalista – ha dedicato questo libro alla figura di Gioacchino Gesmundo, professore antifascista, protagonista attivo del mondo politico durante il ventennio.

Terlizzese, nato in una umile famiglia contadina, ultimo di sei fratelli, Gioacchino Gesmundo rimane orfano dei genitori in tenera età. Studia a Bari nel neonato (con la riforma Gentile che aveva trasformato la vecchia Scuola Normale) Istituto Magistrale Statale “Giordano Bianchi – Dottula”, in cui gli è Maestro una grande figura dell’antifascismo pugliese (e non solo), il pedagogista bitontino Giovanni Modugno (1880 – 1957). Fu proprio Modugno a incoraggiare Gioacchino a continuare gli studi in ambito filosofico. Dopo numerosi sacrifici, Gioacchino a Roma riuscì a realizzare la sua vocazione di intellettuale, diventando maestro elementare, professore di storia e filosofia e assistente all’università. Questa emancipazione intellettuale ed economica fu accompagnata, passo per passo, da una sempre più crescente e assolutamente giustificata insoddisfazione (per usare un eufemismo) rispetto alla situazione politica italiana. Dopo la caduta del regime fascista, Gismundo decise di iscriversi al Partito Comunista. A seguito dell’occupazione nazista di Roma, la sua attività politica si intensificò: la sua casa di via Licia divenne prima la sede della redazione clandestina de L’Unità, e poi anche l’arsenale dei GAP di Roma; fu capo locale del controspionaggio, tenne lezioni di formazione ideologica, lezioni per i compagni e le compagne di lotta. A Roma Gioacchino Gismundo strinse amicizia con un suo compaesano, un sacerdote, don Pietro Pappagallo; don Pietro, così come molti altri sacerdoti, era partecipe e attivo nella lotta contro il nazifascismo, e proprio per questo fu arrestato e tradotto nel carcere di via Tasso, dove venne torturato, ma non denunciò mai gli uomini e le donne della lotta.

Gioacchino Gismundo venne denunciato e arrestato il 29 gennaio del 1944; Gioacchino fu una delle 335 vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, in cui fu ucciso anche don Pietro.

L’eccidio delle Fosse Ardeatine

Il 23 marzo del 1944, 17 partigiani dei GAP – Gruppi di Azione Patriottica – guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in via Rasella, a Roma, mentre passava una colonna di militari tedeschi, un battaglione che apparteneva all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen. Ventotto soldati persero la vita; altri 5 rimasero gravemente feriti e morirono nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu di 42 soldati uccisi, e di alcuni feriti tra i civili.

fonte immagine: mausoleofosseardeatine.it

La sera del 23 marzo il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata – la cui giurisdizione comprendeva anche Roma – approvò la proposta.

Il 24 marzo militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine erano parte del sistema delle catacombe cristiane, e furono scelte per compiere la rappresaglia in segreto e per nascondere i cadaveri delle vittime. Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia. Quindi, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, assieme ad altri che avevano partecipato attivamente alla Resistenza, o che erano semplicemente sospettati di averne preso parte. I tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere il numero “necessario” rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle strade di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di 70 anni, il più giovane appena 15.

Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che 330, che era il numero previsto dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione. Per questo motivo decisero di ucciderli insieme agli altri.

I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Agli agenti incaricati venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, così da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.

I militari tedeschi costrinsero le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi, per rendere più facile il momento in cui avrebbero dovuto spostare i corpi.

Finito il massacro delle 335 vittime Priebke e Hass ordinarono ai militari di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.

Il luogo dell’eccidio delle Fosse Ardeatine è oggi monumento nazionale in ricordo delle vittime.

Valentina Cimino

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