Quando ero un rampante attivista pieno di velleità e fiducia nel prossimo, attendevo il 25 aprile come si attende il giorno più bello dell’anno: più di Natale, più di Pasqua, più del compleanno. Allora organizzavamo cortei, manifestazioni di piazza, gazebo, confronti pubblici, ed era tutta una corsa frenetica a disegnare le locandine, tagliare i nastrini tricolore, svegliare al telefono chi aveva fatto tardi, scaricare le canzoni dei Modena City Ramblers per l’impianto stereo che sistematicamente non funzionava.

Ne abbiamo fatte di iniziative lodevoli, lavorando intere settimane, confrontandoci con un popolo affamato di sapere e di verità storica. Soprattutto, l’abbiamo fatto insieme: perché non dimentichiamo che l’unità è fra le eredità più preziose che la Resistenza ci abbia consegnato in dono.

Adesso, invece, ora che è tutto più grigio ed anche quelle vaghe utopie sono andate ingiallendo nell’album dei ricordi, un silenzio attonito mi riecheggia nell’animo; un silenzio compunto e meditativo, fatto di riflessioni velate d’un amaro cinismo, quello che la maturità e la saggezza accompagnano con bonaria comprensione alle soglie degli occhi di chi si accinge a mettere da parte i filtri dell’entusiasmo e a capire.

Non che intorno si percepisca un’atmosfera da grandi occasioni: le manifestazioni vanno pian piano asciugandosi in un rivoletto stanco di iniziative sparute, trascinate monotonamente verso un citazionismo ripetitivo, oppure diventano pomo della discordia per chi le ritiene “elementi divisivi”.

Ma il Partito Democratico, che i valori dell’antifascismo li ha abbandonati già da un pezzo e non ha mai digerito la sconfitta referendaria del 4 dicembre, farebbe bene ad astenersi da qualsiasi tipo di commento, avendo già disonorato in ogni modo possibile il significato della Liberazione.

Sono in tanti, purtroppo, ad aver smarrito il senso del 25 aprile, ed io con loro. Cause globali e locali ci portano maledettamente lontani da quell’aria fulgida e intrisa di lotta che scintillava di idealismi. Ad avanzare è il nuovo fascismo condito da povertà, ignoranza e tornaconti tutt’altro che nobili.

Più che cestinati, allora, quei giorni sembrano messi da parte e riposti in un cassetto a prender polvere, in attesa di un’occasione più opportuna per rimetterli a nuovo. La gente non comprende, oppure comprende e non si dà cura: questo avverto, questo percepisco. E il fardello di una tale responsabilità grava in gran parte su chi ha deliberatamente sfruttato il 25 aprile per capitalizzare i propri interessi, propugnando un manicheismo ideologico e limitandosi a dividere il mondo in buoni e cattivi, degni e indegni.

La sconfitta morale della Sinistra, e di certi ambienti in particolare, inizia da qui, nel ritenersi depositari di una superiorità etica che l’ha condotta in breve tempo a sprofondare nel fango del settarismo, dell’isolazionismo, del fascismo all’incontrario.

Eppure la storia e la filosofia c’insegnano che al di sopra della vita stessa si pone il concetto di Libertà, per cui è giusto combattere – se assolutamente necessario, anche uccidere. Mi sembra invece che oggi a morire sia proprio l’accezione di libertà: di pensiero, di critica, di espressione. E a dilagare è di nuovo il fascismo vestito di fantocci propagandistici.

Il fascismo odierno non indossa le camicie nere, ma giacca e cravatta; non utilizza slogan, ma indici azionari. Non si oppone alla libertà, ma la elimina subdolamente per mezzo di una libertà, quella economica del capitalismo, che riduce in schiavitù come e più dei regimi. Cosa abbiamo da opporre alle nuove dittature, noi che non possediamo neppure un ricordo consapevole delle vecchie?

Il brainch della domenica - 25 aprile, liberazione e fascismo

Quante banalità in giro, cari lettori. Quante strumentalizzazioni, quanti concetti obsoleti che ci vengono inculcati in mancanza di veri contenuti. Che nausea. 25 aprile dovrebbe significare celebrazione, gioia nel ricordo, ma anche consapevole impegno nel presente: per mano di qualcuno (che non è l’ANPI) assistiamo invece a patetici battibecchi su chi è fascista e chi comunista, su chi vorrebbe il ritorno del Duce e chi dei Borbone, su chi conta i morti di Hitler e chi di Stalin. Patetico, oltre che vile.

Magari in futuro tornerà quell’entusiasmo; potrò riaprire il cassetto e scuotere via la polvere, raccontare di una nuova Resistenza concreta e reale, praticata in primo luogo attraverso l’accettazione reciproca e la tolleranza. Forse sbocceranno nuovi canti e nuove feste, solide utopie negli occhi colmi di futuro, e papaveri tinti di passione sulle ceneri feconde della libertà.

Ma l’impressione più nitida, al momento, è che ci vorrebbero dei nuovi partigiani per liberare la Liberazione da chi l’ha resa una noia più mortale del fascismo.

Emanuele Tanzilli

Immagine di copertina: “Campo di papaveri”, Daniela Paradisi

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