Fin dalle sue origini il teatro porta con sé un’enorme ricchezza: la diversità di voci, emozioni, espressioni. Grazie a questa sua natura aperta a tutte le realtà umane, il teatro ha abbracciato anche l’orizzonte della disabilità, diventando strumento non solo di terapia ma anche di integrazione, divertimento e scoperta di sé e dell’altro. Abbiamo parlato di questo con Roberto Gandini, regista e coordinatore artistico del Laboratorio Teatrale Integrato Piero Gabrielli.
In Italia sono vari i progetti che indirizzano realtà di disagio in percorsi di valorizzazione delle differenti abilità di ognuno. L’attenzione sociale al tema della disabilità si risveglia con il Documento Falcucci (1975) che propose un tipo di scuola impegnata a superare le difficoltà degli alunni (specialmente quelli definiti, fino a qualche tempo fa, “handicappati”) attraverso una rete di attività educative adattate alle potenzialità di ogni allievo. Furono coinvolti enti territoriali, nazionali, figure di specialisti, insegnanti e la sperimentazione nel campo scolastico influenzò anche quella nel campo del teatro.
È infatti del 1981, sulla cresta dell’onda del cambiamento, l’idea di Piero Gabrielli di creare uno spazio inclusivo di persone con e senza disabilità: inizialmente il laboratorio si chiamava “Mille Bambini a Via Margutta”, poi prese il nome del fondatore dopo la sua scomparsa.
Raccontaci gli obiettivi del Laboratorio e perché è chiamato “integrato”.
«Innanzitutto non si tratta di un laboratorio per sole persone disabili. Con questa scelta abbiamo voluto dare l’opportunità a tutti di partecipare e vivere una esperienza formativa concreta. Nonostante la diversità, ognuno offre al gruppo ciò che può. “Integrato” perché in scena si trasforma qualsiasi tipo di limite in un punto di partenza per un percorso anche di crescita personale: in questo terreno comune ci si riconosce unici ma anche uguali nei diritti e nelle possibilità. Ci sono naturalmente delle difficoltà come in ogni gruppo e un modo per superarle è costruire una motivazione per continuare a lavorare.»
Qual è il rapporto con il pubblico e con le istituzioni?
«Chi assiste a un nostro spettacolo spesso ricerca subito i soggetti disabili sul palco. Questo è positivo, perché poi si capisce contro ogni pregiudizio che dietro i limiti e le debolezze ci sono le persone con i loro punti di forza. Abbattere le barriere della diversità e stabilire un incontro con l’altro è un regalo che possiamo fare a noi stessi. Per favorire l’integrazione oggi abbiamo molti più mezzi che allora e le istituzioni che si occupano della disabilità sono più numerose, ma paradossalmente l’integrazione è più faticosa. Si pensi alla separazione netta, a scuola, tra la normale attività scolastica e le attività di sostegno. Quale integrazione si promuove se si emarginano i soggetti con difficoltà rispetto al gruppo in cui dovrebbero inserirsi?».
All’interno del gruppo teatrale si crea una atmosfera in cui ognuno è parte di un percorso condiviso e si sente accettato nonostante le diversità. Com’è la situazione al di fuori? Qual è la problematica maggiore?
«Il teatro integrato lavora molto sull’acquisizione di autostima e autonomia ma non risolve del tutto la questione. Si crea una piccola comunità dove tutti i problemi che provengono dal mondo esterno sono affrontati con sensibilità ma anche professionalità. Uno dei problemi maggiori che si pongono soprattutto i genitori di figli disabili è quello del futuro. Nel 2017 è nato il progetto “Infuturarsi” che è stato un punto di partenza per pensare a un futuro migliore per queste persone, nonostante verso di loro non ci sia ancora la più totale comprensione e attenzione. Abbiamo organizzato al Campidoglio un flash mob in cui abbiamo ricordato che “Il futuro è solo una scatola vuota” e tutti hanno diritto a poter pensare al futuro come a qualcosa di leggero, positivo.»
Arianna Saggio