Aveva ragione la filosofa femminista Simone de Beauvoir: «Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete rimanere vigili per tutta la vita». Quello che sta succedendo in Texas con la controversa e restrittiva legge sull’aborto è emblematico di quanto i diritti delle donne siano costantemente messi a rischio. Pochi giorni fa, infatti, la Corte Suprema ha respinto la richiesta di bloccare l’entrata in vigore della legge Senate Bill 8 firmata da governatore Repubblicano del Texas Greg Abbott. La Senate Bill 8, entrata in vigore lo scorso maggio, vieta il ricorso all’aborto dopo le sei settimane di gravidanza, quando la maggior parte delle donne ancora non sa di essere incinta e quando non sono nemmeno visibili malformazioni degli embrioni.
La nuova legge sull’aborto in Texas è stata soprannominata heartbeat bill, ovvero “legge del battito cardiaco” poiché dalla sesta settimana è possibile sentire il battito cardiaco dell’embrione: è questa la principale motivazione che ha spinto il Texas a vietare l’aborto già dopo questo brevissimo lasso di tempo. In realtà, come ricorda la scienza, seppur sia possibile sentir pulsare l’embrione, questo non è ancora dotato di un organo cardiaco. Eppure l’argomentazione secondo cui l’embrione possiederebbe già il cuore alla sesta settimana è sostenuta con forza dagli antiabortisti e dai conservatori, categorie per definizione maggiormente contrarie all’interruzione volontaria di gravidanza.
La cosa ancor più grave prevista da questa nuova legge del Texas è che ammette pochissime eccezioni in cui una donna possa ricorrere all’aborto dopo la sesta settimana, perlopiù legate ad emergenze sanitarie. Non sono contemplati i casi di incesto e stupro. In aggiunta, tale legge punisce i medici che praticano l’interruzione volontaria di gravidanza e incentiva chiunque a denunciare tutti e tutte coloro che agevolino l’aborto o aiutino ad abortire, dal personale sanitario delle cliniche fino ad accompagnatori e accompagnatrici, assieme a coloro che siano disposti ad aiutare economicamente la donna che vuole interrompere la propria gravidanza.
Ma la Senate Bill 8 è il culmine di una battaglia campale contro il diritto all’aborto, che in Texas è ostacolato da tempo. Lo dimostra il fatto che nel corso degli anni, in uno stato abitato da 29 milioni di persone, il numero di cliniche che praticano l’aborto si è ridotto drasticamente ed oggi sono solo 24. Tale numero è inevitabilmente destinato a calare ulteriormente. Le donne del Texas rischiano di veder maggiormente negato un loro diritto fondamentale poiché saranno costrette ad andare in altri stati affrontando estenuanti viaggi e sostenendo le ingenti spese economiche legate allo spostamento. Quest’ultimo, purtroppo, non è uno scenario nuovo in Texas, dove lo scorso anno lo stato ha vietato gran parte degli aborti durante la pandemia da Covid-19 ed ha costretto il 40% delle texane a recarsi in un altro stato.
Il Texas, con la sua lunga tradizione conservatrice, è uno degli stati che più disprezza l’aborto. Questo ha fatto sì che la legge fosse pensata e studiata appositamente e meticolosamente per non essere legalmente contestabile: nonostante diverse altre “heartbeat bill” proposte da altri stati fossero state tutte respinte dai tribunali, quella approvata dal Texas non è stata bloccata dalla Corte Suprema per 5 voti a 4. Si tratta di un doloroso e spiacevole passo indietro rispetto alla sentenza Roe v. Wade che nel 1973 rese legale l’aborto per le donne entro il settimo mese di gravidanza. Oltre questo periodo la gravidanza poteva essere interrotta solo per questioni legate a rischi per la salute.
La sentenza Roe v. Wade fu emanata proprio in Texas, a seguito della vicenda di Norma Leah McCorvey che per la durata del processo fu chiamata Jane Roe per motivi di privacy. Jane Roe era infatti sposata con un uomo violento da cui aveva avuto due figli e da cui stava per avere il terzo a seguito di uno stupro. McCorvey era intenzionata ad abortire ma non c’erano prove tangibili dell’avvenuto stupro: queste erano strettamente necessarie per l’interruzione della gravidanza, poiché il Texas all’epoca consentiva l’aborto solo in caso di stupro e incesto. La donna fu costretta a ritrattare sulle violenze subite a seguito di minacce, rinunciando alla possibilità di abortire.
Tuttavia, Linda Coffee e Sarah Weddington, due avvocatesse texane, decisero di presentare ricorso alla Corte distrettuale del Texas, che diede ragione a Jane Roe. Successivamente, il procuratore federale Henry Wade fece ricorso alla Corte Suprema, la quale rese legale l’aborto, in determinate condizioni. La base giuridica della sentenza sosteneva una nuova interpretazione del XIV Emendamento della Costituzione, che prevede il diritto alla privacy, qui intesa come diritto di libera scelta in merito alle questioni riguardanti la sfera personale degli individui.
La Senate Bill 8 del Texas è sicuramente una minaccia concreta al diritto all’aborto e ai diritti delle donne in senso ampio e dimostra la veridicità di quanto sostenuto da Simone de Beauvoir ormai più di qualche decennio fa. Per citare Angela Davis, “la libertà è una lotta costante” e le donne lo sanno bene: è la lotta che permette di difendere i diritti già acquisiti e di conquistarne di nuovi, non solo in Texas, ma in tutto il mondo.
Martina Quagliano