Quei bravi ragazzi stupratori stupro campobello di mazara
Fonte: The Guardian

A pochi giorni di distanza dalla pubblicazione del video in cui Beppe Grillo difende il figlio accusato di stupro, un altro spiacevole episodio di victim blaming balza alle cronache nazionali. Lo scorso 29 aprile, infatti, quattro giovani di età compresa fra i 20 e i 24 anni sono stati arrestati a Campobello di Mazara, nel trapanese, con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una diciottenne. I fatti risalgono all’8 febbraio 2021, quando la ragazza fu invitata ad una festa in villa a cui avrebbero dovuto prendere parte anche altre ragazze.

Dopo esser giunta sul posto, la giovane ha iniziato a bere e ballare insieme agli altri, in attesa delle compagne che in realtà non si sono mai presentate: una finta festa che si è rivelata una vera e propria trappola. In un secondo momento, la ragazza si è appartata al piano di sopra con uno dei ragazzi quando costui, contro il volere della ragazza, ha chiamato gli altri al piano di sopra e insieme hanno stuprato la giovane di Campobello di Mazara. Il giorno dopo, con l’aiuto del fratello e di un’amica, la vittima si è convinta a denunciare l’accaduto ai carabinieri.

Come se la vicenda non fosse già drammatica di per sé, a rendere ancor più orribile e vergognoso l’accaduto hanno contribuito le dichiarazioni del padre della vittima, che in un primo momento è corso in caserma per giustificare gli stupratori, definendoli “bravi ragazzi”. Successivamente l’uomo ha deciso di tornare sui suoi passi e di credere e sostenere la figlia. Le ragioni della prima presa di posizione in favore dei ragazzi e del successivo ripensamento da parte dell’uomo non sono ancora ben chiare e note, ma quello che è certo è che si è tratto dell’ennesimo caso di victim blaming.

Il caso di victim blaming a Campobello di Mazara

Così come è successo a Campobello di Mazara, la colpevolizzazione della vittima è una pratica purtroppo diffusa ed interiorizzata dalla nostra società patriarcale e consiste nel ritenere la vittima parzialmente o interamente colpevole della violenza subita. Frasi come “se l’è cercata”, “si è fatta riprendere in video” e “non ha detto esplicitamente no” oppure i giudizi sull’abbigliamento della vittima, costituiscono le più lampanti e frequenti manifestazioni di victim blaming. Tale termine fu coniato nel 1971, quando lo psicologo statunitense William Ryan pubblicò il libro Blaming the victim in cui contestava la teoria del sociologo Daniel Patrick Moynihan secondo cui la formazione dei ghetti e della povertà era da attribuire ai comportamenti degli stessi poveri.

Oggi l’espressione è utilizzata in riferimento alla colpevolizzazione di tutti quei gruppi che, dal punto di vista sociologico, sono considerati minoritari: donne, neri, poveri, stranieri, comunità lgbtq+ e minoranze religiose sono i principali bersagli di tale infamante pratica, la quale si inserisce perfettamente in quelle dinamiche di oppressione da parte delle classi trasversalmente dominanti ai danni delle classi subalterne. La colpevolizzazione della vittima ha anche un’altra spiegazione teorica, ovvero l’ipotesi del mondo giusto. Tale teoria fu resa nota nel 1980, quando il Professore di psicologia sociale Melvin J. Lerner pubblicò il libro The Belief in a Just World: A Fundamental Delusion.

Tuttavia i suoi studi in merito iniziarono già negli anni Sessanta, quando durante un tirocinio come psicologo notò che gli infermieri che lavoravano nel suo stesso centro diventavano rudi e sgarbati con i pazienti e addirittura arrivavano ad incolparli della malattia. Da lì Lerner, insieme a Symmons, condusse una serie di esperimenti per indagare meglio il fenomeno. Al termine di questi arrivò a constatare che quando le persone notano situazioni spiacevoli alle quali non sanno trovare una soluzione e una spiegazione finiscono per ritenere la vittima degna del suo destino.

Spesso però le vittime, in particolar modo le donne, posso divenire tali anche una seconda volta, secondo il meccanismo della vittimizzazione secondaria ( o post-crime victimization). Con tale espressione si indicano tutte quelle conseguenze indirettamente connesse alla vicenda operate dalle istituzioni, in primis quelle del sistema giudiziario. Tutte le volte in cui le istituzioni non credono alla versione della vittima, o quando cercano di analizzarne tutta la vita in cerca di indizi che possano squalificare le parole della persona, o quando ancora la costringono a ripetere più volte il racconto doloroso del reato al fine di verificarne la credibilità e la veridicità, la persona in questione diviene vittima una seconda volta. Tale pratica, per l’appunto, tende proprio a rendere più vulnerabile, debole e impotente il soggetto.

Un caso esemplificativo di vittimizzazione secondaria è quello ripreso in Processo per stupro, il primo processo ripreso dal vivo dalla Rai. Qui l’avvocatessa Lagostena Bassi difende Fiorella, una diciottenne stuprata da quattro uomini di quarant’anni che l’avevano sequestrata e sessualmente violentata per un intero pomeriggio con la scusa di un’offerta di lavoro. Gli avvocati difensori dei quattro uomini, più volte e senza scrupolo, cercano di indagare il passato della ragazza, di farsi raccontare con dovizia di particolari l’avvenuto stupro e addirittura criticano la giovane per essere andata da sola ad incontrare degli uomini più grandi di lei.

Memorabile è l’arringa dell’avvocatessa Lagostena BassiPresidente, Giudici, credo che innanzitutto io debba spiegare una cosa: perché noi donne siamo presenti a questo processo. Per donne intendo prima di tutto Fiorella, poi le compagne presenti in aula, ed io, che sono qui prima di tutto come donna e poi come avvocato. Che significa questa nostra presenza? Ecco, noi chiediamo giustizia. Non vi chiediamo una condanna severa, pesante, esemplare, non c’interessa la condanna. Noi vogliamo che in questa aula ci sia resa giustizia, ed è una cosa diversa. […]Ed allora io mi chiedo, perché se invece che quattro oggetti d’oro, l’oggetto del reato è una donna in carne ed ossa, perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna. La vera imputata è la donna. E scusatemi la franchezza, se si fa così, è solidarietà maschilista, perché solo se la donna viene trasformata in un’imputata, solo così si ottiene che non si facciano denunce per violenza carnale. Io non voglio parlare di Fiorella, secondo me è umiliare venire qui a dire che non è una puttana. Una donna ha il diritto di essere quello che vuole, senza bisogno di difensori. Io non sono il difensore della donna Fiorella. Io sono l’accusatore di un certo modo di fare processi per violenza […]».

Nonostante molti passi importanti siano stati fatti da quel lontano 1979, il caso di Campobello di Mazara, ultimo di una lunga serie, dimostra che la nostra cultura e la nostra società sono ancora permeate di maschilismo e che solo un’efficace decostruzione della società in un’ottica inclusiva e rispettosa potrà porre fine all’opprimente sistema patriarcale, sistema che preferisce colpevolizzare la vittima anziché l’aggressore, perfino quando si tratta della propria figlia.

Martina Quagliano

Quotidiano indipendente online di ispirazione ambientalista, femminista, non-violenta, antirazzista e antifascista.

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