Io non so nulla dell’Afghanistan. Non so nulla dei talebani, dell’imperialismo, della democrazia esportata e del ritiro frettoloso delle truppe a stelle e strisce. E non mi interessa. Non mi interessa dell’America, della geopolitica o del governo di transizione. È quasi l’una di notte del 17 agosto e a me non importa di tutti gli accordi, degli uomini incravattati che girano nei palazzi e pensano di amministrare il potere e così, ubriachi del loro ruolo, di poter amministrare la vita e la morte degli altri uomini.
Piuttosto mi chiedo a cosa serva tutto questo, la comunità internazionale, le riunioni tra gli Stati e i summit di governo, se negli occhi di un padre o di una madre c’è la disperazione e la paura di non poter abitare un Paese sicuro per i propri figli. Se alla notizia – non sicura, appena sussurrata – di Paesi lontani pronti ad ospitare, c’è chi è disposto ad abbandonare tutto, lasciare la propria terra, la propria lingua, la propria cultura e la propria famiglia senza pensarci un attimo, senza avere il tempo di guardarsi indietro pur di tentare di scappare. Mi chiedo a cosa serva. A cosa serve il progresso, a cosa servono i vertici, i G7, i discorsi alla nazione – quelli accorati e pieni di buoni propositi – se non si riesce a fermare la caduta di un uomo che preferisce attaccarsi ad un aereo che decolla piuttosto che rimanere nella sua casa e nella sua terra? A cosa serve tutto questo?
Continuiamo a parlare di profughi, di blocchi navali, di contraccolpi per l’Occidente mentre le donne si coprono il corpo e il viso e persino le mani e rinunciano alla vita, mentre intere famiglie cercano rifugio, si nascondono come topi e strisciano colpevoli lungo i muri delle proprie strade, per la sola colpa di appartenere ad un’etnia, ad una minoranza, di credere in una religione o per aver collaborato con gli occidentali. Per la semplice colpa di aver scelto di credere che costruire una società diversa in Afghanistan fosse possibile.
E intanto le scene della calca, di volti, di mani che chiedono aiuto, di corpi caduti e calpestati, di occhi che piangono, di gole che cercano di urlare ma non trovano più aria, non trovano più respiro, si accavallano. Abituati come siamo alla successione di immagini, bulimici di folle e terrore, dimentichiamo cosa stiamo guardando e non riusciamo a mettere a fuoco la disperazione di un insieme di corpi che si fa massa, si fa unica, spaventosa, valanga.
Che la valanga, si sa, annulla le storie, silenzia le individualità: la valanga è più facile da dimenticare. Ed infatti è più facile dimenticare decine di uomini che corrono in un’unica direzione, più difficile un corpo schiacciato, calpestato e lasciato a morire sui marciapiedi. È più facile ignorare il grido disperato di una folla, più difficile le lacrime di una donna o il suo respiro affannato mentre corre verso casa, per nascondersi e bruciare il proprio diploma. È più facile parlare di profughi, di blocco navale, di pericolo per l’Europa, più difficile fare i conti con le singole speranze.
Raccontiamo gli uomini e le donne dell’Afghanistan
E quanto valgono gli accordi, quanto vale l’analisi del Medioriente fatta dal salotto di casa e gli equilibri geopolitici? Quando, ad essere schiacciati, a morire in ginocchio con una pallottola, a cadere nel vuoto attaccati al carrello di un aereo americano sono uomini e donne. Quando a dover rinunciare a tutto, alla propria dignità, sono persone. Non gruppi, non identità astratte collettive. Uomini, donne, madri, padri, sorelle, nonni. Sono ragazzi, ragazze, bambini e bambine. Siamo noi. E loro sono noi. Solo che loro non possono recarsi in ospedale senza temere che cadranno dal cielo bombe che lo distruggeranno, non possono scegliere quali vestiti indossare, in quale Dio credere e a quale politico affidarsi. Non possono passeggiare per le strade serenamente e il silenzio della loro città li spaventa.
Si fa un gran parlare di imperialismo, di America, di democrazie esportata e missioni di pace e ora di Cina, Turchia e Germania. Affolliamo i salotti televisivi per ripetere ovunque lo stesso commento o per formulare la migliore analisi, sentendoci tronfi, competenti e lungimiranti. Noi che abbiamo il privilegio di esser nati in Europa e tutto ciò che sappiamo fare è guardare con pietà ai fatti dell’Afghanistan, con alterigia mascherata da empatia alle vicende e al futuro delle donne afghane e continuiamo a riconcorrerci a colpi di retorica vuota e sterile che solo la parte del mondo fortunata assicura e garantisce.
E allora, raccontiamo le persone che vivono questi drammi. Se è l’unica cosa, l’unico espediente per lavarci la coscienza e per agire. Commentiamo gli eventi, descriviamo le convulsioni di un Paese condannato al passato e al sangue. Raccontiamo delle strade, delle donne e degli uomini, delle coscienze. Di un Paese silenziato, che urla con i muscoli tesi e gli occhi pieni di lacrime. Ma smettiamola di rivolgerci alle persone del popolo afghano come se fossero già personaggi di un libro di storia e non fossero i loro corpi a cadere, le loro gambe a cedere, i loro volti ad essere trasfigurati.
Smettiamola di parlare della condizione della donna e dei diritti umani con freddezza e distacco, come se fossimo allo zoo dell’umanità e ci interessasse assistere all’involuzione della specie. Ecco, io non so nulla. Non so nulla di Afghanistan, non so nulla dei talebani, non so nulla nemmeno della guerra e scrivo grazie agli occhi di altri e ai racconti di altri. Ma non riesco a restare indifferente di fronte alla disperazione altrui. Trovo impossibile riconoscermi nella politica estera europea, nell’immobilismo privilegiato e sterile. Ciò che riconosco, e rispetto, è la sofferenza, la paura e l’oppressione. Perché è in quel lamento di dolore che si vede la dignità di un popolo che non può chiedere aiuto.
Dicono che l’altra notte a Kabul ci fosse un silenzio innaturale. La città verso cui tutto il mondo ha rivolto i propri riflettori ha eliminato i rumori ed è rimasta così: ferita, esanime, in silenzio.
Edda Guerra