immigrati negli USA
Il Presidente degli USA Donald Trump (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Gli immigrati negli USA incontrano sempre maggiori difficoltà e discriminazioni e ciò, ormai, è un dato di fatto. Mentre la politica di deportazione degli immigrati “irregolari” continua ininterrottamente da anni, ben prima di Trump, negli ultimi tempi la stretta sulla migrazione ha preso una piega ancor più drastica, con toni estremamente razzisti.

Tramite le nuove leggi proposte nell’estate 2019 si ampliano le possibilità di deportazione: non più soltanto chi viene intercettato nei pressi del confine con il Messico e si trova negli States da meno di due settimane, ma qualsiasi immigrato trovato senza documenti, in qualsiasi Stato federale degli States e che non riesca a provare di vivere nel Paese da più di due anni ,verrà espulso dal Paese; inoltre non sarà più concesso un avvocato, ciò ha sollevato forti dubbi sulla legalità del provvedimento.

Gli immigrati negli USA al tempo di Trump

Questa ennesima misura è una goccia nella tempesta scatenata da Trump sugli immigrati negli USA. Le mosse più recenti del Presidente americano sono riconducibili a una politica di esaltazione fanatica dei “nativi”, i natives, accompagnata dalla criminalizzazione degli immigrati e in generale da chi proviene da Paesi poveri o del Sud del mondo. Le ultime leggi riguardano, ad esempio, la separazione dei bambini dai genitori al confine messicano, pratica che avviene regolarmente dall’aprile 2018 (sebbene il governo americano operava già in questo modo, ma di nascosto, dall’estate 2017). Ora diverse famiglie di immigrati hanno intentato una causa per i traumi causati da questa politica del quale il governo americano, dopo averla promossa, non può disinteressarsi.

Da settembre 2019 è anche entrata in vigore una forte stretta sulla possibilità di richiedere l’asilo. Infatti ora per entrare negli States il richiedente asilo deve dimostrare o che gli USA sono il primo Paese nel quale hanno messo piede (praticamente impossibile, poiché tutti i migranti dal Centroamerica devono passare dal Messico), oppure possono richiedere l’asilo solo se è stato rifiutato dal terzo Stato dal quale sono transitati precedentemente. In sostanza, il diritto d’asilo viene de facto estremamente ridotto.

In aggiunta la Casa Bianca ha reso sempre più difficile per gli immigrati negli USA, a partire dal maggio 2019, la concessione della cosiddetta green card – il permesso di residenza permanente sul suolo statunitense. Dal 2015 al 2019 la percentuale di lavoratori ai quali è stato rifiutato il visto è salita dal 6% a più del 30%. Tra le varie conseguenze sulle diverse fasce della popolazione straniera, l’incoerenza totale di questa politica minaccia la ricerca nell’ambito dell’intelligenza artificiale, nella quale Trump vuole che il suo Paese sia il leader mondiale, poiché la maggioranza dei lavoratori assunti per lo sviluppo dell’IA non sono americani.

Il razzismo di Stato

Il fenomeno degli immigrati negli USA, in particolare per quanto riguarda il confine messicano, è stato profondamente studiato da Nicholas De Genova, ricercatore noto a molte università anglosassoni, attualmente Presidente del Dipartimento di Studi Culturali Comparati all’Università di Houston e punto di riferimento degli studi critici sull’immigrazione. La sua analisi offre un panorama ben chiaro che riconduce le varie politiche di Trump a un’esaltazione dei natives (“la promozione della priorità degli autoctoni sulla sola base dell’essere autoctoni”) imprescindibile da una retorica, parallela, di esclusione dello straniero

Trump
Il muro che separa le spiagge di San Diego e Tijuana

In quest’ottica gli appelli di Trump a fortificare il muro e chiudere il confine con il Messico sono stati accoppiati al cosiddetto “Muslim-ban“. Quest’ultimo consiste in una direttiva, approvata definitivamente dalla Corte Suprema nella sua terza versione durante l’estate del 2018 (e da allora in vigore), che vieta su vari livelli l’ingresso negli USA ai cittadini di otto Stati nel mondo, di cui sei sono a maggioranza musulmana (tra cui Iran e Siria). L’argomentazione del confine poroso tra Stati Uniti e Messico è stata sfruttata in una battaglia contro indefiniti nemici che vengono raccolti sotto l’etichetta di Paesi pericolosi a prevalenza musulmana, svenduti come responsabili della sofferenza del popolo americano – più precisamente della sua classe media e di quella più povera

Il razzismo di Stato si manifesta nella retorica sugli immigrati negli USA, dove la figura dello “stupratore” messicano (la versione forte del “Polish plumber”, tenendo conto che entrambe rappresentano connotazioni razziali di un individuo) è stata ampliata a tutti i latino-americani nel discorso di Trump. Le parole si sono tramutate in politiche e la superiorità della “razza americana”, dei natives, è funzionale a rafforzare un “noi” e un “loro” che sta impattando gravemente sulla società americana, dall’economia nazionale alle disuguaglianze interne. 

Eppure non dovremmo scandalizzarci oggi più di qualche anno fa, quando Barack Obama riuscì a battere un infelice record e diventare il Presidente americano che ha deportato più persone nell’intera storia degli Stati Uniti (ben 2.5 milioni di immigrati in otto anni, più della somma di tutti i Presidenti americani del XX secolo). Al contempo più del 70% dei richiedenti asilo da Honduras, Guatemala ed El Salvador hanno visto la loro domanda d’asilo rigettata tra il 2012 ed il 2017, per buona parte sotto la presidenza Obama. Il problema è strutturale nella politica americana e viene oggi aggravato dalla retorica apertamente anti-immigrazione del Tycoon.

Barlumi di resistenza: New York City e gli illegal alien

La discriminazione istituzionale degli immigrati negli USA ha raggiunto livelli manifestamente razzisti. Il mondo, Italia compresa, certo non si distingue troppo in materia, a maggior ragione se il governo giallo-rosé continuerà a fingere o nascondere che il Decreto Sicurezza Bis è ancora in vigore. Indubbiamente a livello locale possiamo trovare esempi più confortanti, come l’evoluzione della città di New York sulla discriminazione degli stranieri.

Da inizio ottobre chiunque utilizzerà l’espressione “illegal alien” (alieno nel senso di “ogni persona non cittadina o nazionale degli USA”, secondo il Dipartimento di Sicurezza Interna) in senso discriminatorio potrà venir punito fino a 250.000$. Una causa di questo tipo è già in corso: il motivo è la minaccia da parte di un’affittuaria di chiamare le autorità dell’immigrazione per un’inquilina straniera che, ottenuta la green card, ha sporto denuncia.

Agli inizi degli anni ’90 New York City, grazie alla politica Zero Tolerance (“tolleranza zero”) applicata dal sindaco Rudolph Giuliani, avanzava il pretesto del decoro urbano come legittimazione dell’intervento repressivo su senzatetto e immigrati. Il Bronx rappresentava un pericolo non tanto per la metropoli dai colletti bianchi quanto per la vita di afroamericani, clochards e immigrati, capro espiatorio di tutti mali che possono affliggere una rampante metropoli capitalista. La decisione sugli illegal alien è certo solo un piccolo passo, ma non così astratto come potrebbe sembrare. La resistenza alla discriminazione degli immigrati negli USA passa anche dalle parole.

Lorenzo Ghione

1 commento

  1. Bella analisi, che Trump sia un becero razzista è fuori da ogni dubbio, l’uso poi dell’appellativo di “natives” per i cittadini statunitensi fa veramente ridere, se io fossi un vero nativo americano (pellerossa per intenderci), mi incacchierei parecchio, considerato il discreto numero di “immigrati” bianchi che dal XVII secolo ha invaso quel continente.

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