Le migliaia di cittadini che lo scorso 7 maggio hanno sfilato per le strade di Roma sono la prima significativa manifestazione della società civile italiana contro il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), il trattato transatlantico di libero scambio tra Usa e Ue. A ottobre, era stata l’opinione pubblica tedesca a esprimere il proprio dissenso per le strade di Berlino, con un corteo di circa 250mila persone.

All’epoca in Italia nemmeno se ne parlava, non solo per l’inopportuno disinteresse della maggioranza della stampa, ma anche per la totale mancanza di trasparenza sui negoziati. Infatti, a caratterizzare questo accordo commerciale è stata proprio la segretezza. Fino a qualche giorno fa, del Ttip si sapeva poco o nulla, perché i 13 incontri di trattative a marzo l’ultimo, ndr  sono tutti avvenuti a porte rigorosamente chiuse, accessibili solo ai tecnici, al governo degli Stati Uniti e alla Commissione Europea.

Lunedì 2 maggio, la sezione olandese di Greenpeace ha reso pubbliche 248 pagine di documenti negoziali, rompendo gran parte di questa riservatezza e, soprattutto, confermando molte delle preoccupazioni espresse da numerose associazioni europee e statunitensi, già a conoscenza di alcuni contenuti del Ttip grazie a vie non ufficiali.

I rapporti dei dibattiti ribadiscono la gigantesca portata che questo trattato avrebbe sugli individui coinvolti – ben 820 milioni di consumatori, ndr , quali sarebbero i rischi reali e, soprattutto, quanta complessità si nasconde dietro a quella che sembra una semplice sigla, la cui approvazione passerebbe, senza un’adeguata informazione, inosservata ai più.

Il Ttip mira ad aumentare la facilità degli scambi tra Ue e Usa in quattro settori: merci, investimenti, servizi e appalti. I dazi doganali tra i due continenti sono già ridotti al minimo e per questo l’accordo si focalizza su un’altra questione: le barriere non tariffarie, ovvero le normative che differenziano i due contraenti. Secondo alcuni autorevoli pareri, l’accordo vorrebbe uniformare verso il basso tutti gli standard di sicurezza e di protezione che differenziano le due parti e che potrebbero ostacolare la libertà dei loro rispettivi investimenti. Il vantaggio di un appiattimento, però, come denunciato da numerose associazioni, avverrebbe a discapito dei consumatori e a favore delle grandi aziende, soprattutto multinazionali.

In particolare, i nuovi documenti pubblicati mostrano un’evidente asimmetria nei negoziati, perché se l’Europa si mostra pronta a convergere verso soluzioni comuni, gli Stati Uniti rimangono fermi sulle proprie posizioni. Anziché puntare a un’armonizzazione reciproca, le trattative sarebbero orientate verso il riconoscimento e l’accettazione da parte dell’Unione Europea delle più blande regolamentazioni degli Usa. Come riferisce il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, Washington farebbe pressioni all’Europa minacciando «di bloccare le facilitazioni sulle esportazioni per l’industria automobilistica europea» e attaccherebbe «i principi di fondo di precauzione della tutela del consumatore europeo che oggi proteggono 500 milioni di consumatori dall’ingegneria genetica negli alimenti e dalla carne trattata con ormoni».

Gli standard di sicurezza europei sull’alimentazione, infatti, sono molto più rigidi rispetto a quelli statunitensi, così come quelli sulla protezione ambientale, sulla salute, sulle condizioni di lavoro, sulla salvaguardia dei dati. La linea di condotta europea segue il principio di precauzione, in base al quale non si mettono in commercio merci finché non se ne prova scientificamente l’incolumità per la salute umana. Questo non vale negli Stati Uniti, in cui, al contrario, tutto è commercializzato fino a quando non si hanno le prove che faccia male: prodotti potenzialmente dannosi potrebbero circolare e venire acquistati dai consumatori, anche per decenni. Per questo non si possono importare dal mercato americano le carni trattate con gli ormoni (negli Usa circa il 60%-80% dei suini) o il famoso ‘pollo al cloro’, per questo esistono serrate norme sui cibi OGM e per questo l’Europa controlla e vieta migliaia di sostanze chimiche. D’altra parte, la legislatura statunitense prevede più controlli in altri campi, come quello finanziario e automobilistico. Così, per esempio, se il Ttip fosse confermato, l’Europa potrebbe aumentare le rendite per l’esportazione di macchine nel mercato d’oltreoceano, oggi ostacolate dalle diversità normative.

I soggetti che si oppongono all’accordo hanno evidenziato come, oltre alla mancanza di trasparenza e ai rischi per la salute, il Ttip porterebbe a un’asimmetrica competitività economica che schiaccerebbe centinaia di piccole e medie aziende e minaccerebbe seriamente il patrimonio agroalimentare del Vecchio Continente. C’è poi la controversa questione della diminuzione delle normative sulla privacy di internet, ma soprattutto quella che riguarderebbe direttamente il tema della democrazia e dello stato di diritto: la possibilità da parte delle multinazionali di fare causa a qualsiasi ente continentale, regionale o locale che abbia preso provvedimenti – per esempio legislativi, ndr  contro i profitti attuali o potenziali della grande azienda. Per esempio, se un comune italiano decidesse di eliminare dalle mense scolastiche della città tutti i cibi non biologici, una multinazionale come la Monsanto potrebbe portare l’amministrazione in questione a processo, ma a questo punto il giudizio non avverrebbe in un tribunale ordinario, bensì nel cosiddetto arbitrato, formato da un gruppo privato di esperti, criticati su molti fronti per la loro imparzialità.

La Commissione Europea sostiene che siano tutti allarmismi non giustificati, dichiarando più volte di agire con la massima trasparenza e di mantenere una posizione di salvaguardia di consumatori e imprese europee, soprattutto per quanto riguarda l’alimentazione e l’ambiente. Eppure i documenti di Greenpeace mostrano, dopo mesi di ambiguità, come si rischino di oltrepassare anche quelle poche ‘linee rosse’, che erano state concordate come insuperabili con il Parlamento europeo.

In una società democratica come la nostra e quella statunitense, i comportamenti di scarsa trasparenza hanno caratterizzato ben tre anni di trattative, delle quali la società civile ha saputo poco o nulla. Anziché coinvolgere fin da subito ampi strati dell’opinione pubblica nella discussione di un accordo così importante e incisivo, questo è stato scritto, discusso e contrattato nella più completa opacità, a porte chiuse e tra tecnocrati, multinazionali e il governo statunitense.

Rosa Uliassi

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