Il verdetto della storia può giungere, implacabile, anni o decenni dopo che certe scelte vengono portate a compimento.

In questo caso, il giudice risponde al nome John Chilcot, presidente della commissione d’inchiesta sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq nel 2003. La sentenza è arrivata, invece, dopo sette lunghi anni di lavoro, durante i quali i commissari hanno posto sotto la lente d’ingrandimento i fatti e le cause che hanno portato Tony Blair, ex primo ministro britannico, ad affiancare gli Stati Uniti di George W. Bush contro il regime di Saddam Hussein.

Ovviamente, non c’è stato nessun giudice né tantomeno alcuna sentenza, ma il risultato delle indagini della commissione Chilcot è stato ugualmente importante: ha avuto l’effetto di evidenziare, pur con tredici anni di ritardo, gli errori marchiani che furono alla base della decisione di entrare in guerra.

È opportuno premettere, prima di entrare nel dettaglio delle risultanze ufficiali, che i commissari hanno esaminato oltre 150mila documenti e ascoltato diverse decine di testimoni prima di stendere un rapporto di dodici volumi, che è stato presentato al pubblico per la prima volta la settimana scorsa.

La scelta di Blair è stata definita – con una buona dose di eufemismo tutto inglese – precipitosa, poiché fondata su una delle più grandi menzogne della storia recente: il possesso di armi di distruzione di massa da parte del regime di Saddam.
Gli errori, naturalmente, non furono soltanto del premier, che tuttavia non si preoccupò di vagliare le informazioni che gli vennero trasmesse da un’intelligence palesemente inadeguata al compito di indagare sul grado di pericolosità militare degli iracheni.
Il tratto che emerge dall’indagine è dunque quello di una scelta approssimativa da parte del governo Blair, presa a ruota di un’altra decisione, parimenti errata e secondo alcuni in mala fede, del presidente statunitense Bush, postosi a capo della famosa willing coalition volta all’esportazione di democrazia in un Iraq oppresso dalla dittatura baathista.

Un resoconto che fa male, pensando ai milioni di morti, militari e civili, che quella guerra si è portata dietro, e che è reso più amaro dalla constatazione, proveniente dallo stesso Chilcot, del fatto che l’intervento armato non era l’estrema risorsa a cui ricorrere.

Strategie di contenimento, intensificazione delle ispezioni e monitoraggio da parte degli osservatori internazionali erano solo alcune delle soluzioni che si sarebbero potute mettere in pratica, in alternativa all’intervento armato, ma purtroppo all’epoca si decise di agire d’istinto, come per assecondare sia un’opinione pubblica ancora sconvolta dall’11 settembre, sia un alleato bellicoso dall’altra parte dell’oceano.

Il lavoro della commissione ha inoltre rilevato che il premier britannico era stato avvertito del pericolo che gli armamenti dell’esercito di Saddam sarebbero potuti finire nelle mani dei terroristi, i quali avrebbero potuto a loro volta approfittare della caduta del regime per inasprire gli ulteriori conflitti per il raggiungimento del potere – cosa poi avvenuta, con terribili conseguenze il cui strascico si protrae sino ad oggi.

Un disastro politico in piena regola, dunque, che oggi prende la forma di un preciso j’accuse da parte della commissione Chilcot, a cui l’ex primo ministro Tony Blair ha risposto con eloquente imbarazzo.

Ufficialmente, infatti, Blair ha incassato le accuse, scusandosi con il popolo britannico per l’ormai indiscutibile errore politico, affermando di aver intrapreso in totale buona fede l’azione militare in Iraq e proclamandosi, infine, pronto a prendersi le proprie responsabilità. Un passo indietro senza dubbio lodevole anche se colpevolmente tardivo, ma che rimane comunque la prima vera presa di coscienza sulla vicenda.

Anche David Cameron, primo ministro dimissionario, ha voluto rendere pubblico il suo commento, secondo cui «ci sono importanti lezioni da imparare» da ciò che emerso da questa indagine. E la storia, in effetti, offre numerosi esempi di come sia assolutamente controproducente entrare in un conflitto bellico assecondando le mire espansionistiche di un leader politico alleato. Il problema è che la presa di coscienza arriva sempre dopo.

Carlo Rombolà

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