“Mi spiace ma non possiamo più stare insieme… il problema è che… hai troppi pochi like”

La frase qui sopra sembra uno scherzo idiota, e invece è una scena che sempre più spesso accade (per davvero) nelle fasce giovani della popolazione – e qualche volta anche in quelle meno giovani.

Come reagireste ad un messaggio del genere? Se vi ispirerebbe imprecazioni e bestemmie in sequela, allora potete continuare a leggere quest’articolo; se invece in preda alla vergogna cerchereste di capire come usare meglio gli hashtag per prendere più like, allora ho cattive notizie per voi.

Cari lettori, c’è chi sostiene che la fine sia vicina, ma secondo me si sbaglia: perché la fine è già arrivata da un pezzo. E per essere precisi, quando abbiamo accettato di svendere la nostra dignità alla globalizzazione del giudizio, quando abbiamo barattato l’estetica per l’etica, quando abbiamo scelto di misurare il valore di una persona in valuta virtuale anziché morale.

Parlo dei like, naturalmente, i “mi piace” che costituiscono l’unità di scambio fondamentale di social network come facebook, twitter, instagram e youtube – in attesa che arrivino anche su whatsapp. Il like non è faticoso, non implica sforzi intellettuali, né espone al confronto. È uno strumento di opinione e, al contempo, di potere.

Mi stai antipatico? Non ti metto like. Un ricatto quasi infantile, che certo lascia il tempo che trova, ma che per aziende e attività che finiscono spesso vittime di veri e propri “sabotaggi del consenso” può significare l’inizio di una crisi.

Chiarito questo, mi chiedo come sia possibile lasciare che un pollice all’insù divenga il nostro termine di paragone primo e fondamentale, un gesto meccanico mosso a volte dall’istinto, a volte dal calcolo più bieco e spietato.

Il like non conosce mezze misure, non possiede ragionevolezza, non è mosso dal buonsenso: emargina senza criterio, qualifica senza giudizio.

facebookocaineNe volete una prova? So che non ne avete bisogno, ma provate a far scrivere lo stesso aforisma ad una bella donna e poi ad un anonimo ragazzo. Ripetete l’esperimento con la foto di un identico panorama e con una barzelletta. Il contenuto è lo stesso, l’originalità pure (ovvero: zero), eppure gli effetti sono diversi, e chi veicola il messaggio ne destina le sorti.

Fino a giungere al paradosso parossistico per cui non si viene più recepiti per nulla: i messaggi sbiadiscono, scompaiono e s’identificano con chi li trasmette, e l’interlocutore con pigra inerzia istintiva è preso dal giudicare o ignorare sulla base di un mero criterio estetico o empatico.

Si sviluppa in questo modo l’epoca della disinformazione consapevole: proprio quando gli strumenti tecnologici a nostra disposizione consentirebbero una diffusione capillare di cultura e conoscenza, si predilige la notizia spicciola, becera o morbosa, purché d’effetto o divertente. Allo stesso modo si allevano intere generazioni abituate a riporre le loro valutazioni e scelte di vita sulla base della schizofrenia del web: e dei tragici risvolti del cyberbullismo sappiamo fin troppo bene.

Il mio consiglio, allora, sarebbe quello di imparare a non prenderci troppo sul serio. Di saper essere ironici. Di prenderla con filosofia, con qualche hashtag in meno e qualche contenuto in più. Ci sarà sempre la patina di superficialità, il vizio narcisistico della ricerca ossessiva dell’approvazione altrui, ma si tratta di un comportamento insano e soprattutto deprimente.

Banksy: Nobody likes you
Banksy: Nobody likes you

Nessuna società e nessun individuo possono realizzarsi compiutamente attraverso la mercificazione dell’identità e la prostituzione della dignità. E la spirale viziosa che ci opprime ha già condotto molti di noi sul pericoloso margine di stimarsi come se la vita fosse un’approssimazione dei like ricevuti.

Ma vivere per sentirsi apprezzati è già abbastanza triste di per sé; figuriamoci il morire per il motivo opposto.

Emanuele Tanzilli

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