Negazionisti del clima, cambiamento climatico
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Nonostante il cambiamento climatico sia destinato a trasformare in modo radicale il mondo che abitiamo, sempre più frequentemente si osserva un fenomeno di criminalizzazione degli attivisti climatici. Chi manifesta per la tutela del clima e del Pianeta, infatti, sta assistendo a un inasprimento delle misure di contrasto delle proprie azioni di protesta, mentre le teorie bislacche dei negazionisti del clima trovano ampio seguito sui social e, talvolta, spazio nei salotti televisivi.

Così, mentre le azioni di disobbedienza civile promosse dai primi servono – come sta accadendo – a favorire una discussione volta a rivedere leggi esistenti e a promulgarne di nuove nel tentativo di contrastare gli effetti rovinosi ma ancora reversibili della crisi climatica, le teorie negazioniste non fanno altro che inquinare il dibattito pubblico sulla necessità di rinunciare ai combustibili fossili per salvare il Pianeta. Sebbene, infatti, il negazionismo climatico abbia oggi assunto fattezze nuove e diversificate, la presenza costante di tre elementi garantisce la sopravvivenza della prospettiva negazionista: insinuare il dubbio nella verità scientifica, fare propaganda politica e alimentare quanta più confusione possibile. Ma cosa si intende esattamente quando si parla di negazionismo climatico?

La prospettiva negazionista

Secondo l’Oxford dictionary, questo fenomeno fa riferimento a:

  • Il rifiuto di accettare che il cambiamento climatico è in atto ed è causato dal comportamento umano;
  • La negazione del cambiamento climatico e della convinzione che i combustibili fossili abbiano eroso la capacità del mondo di contenere il riscaldamento globale.

Una delle argomentazioni preferite dalla prospettiva negazionista è che nella comunità scientifica non ci sia coesione tra gli scienziati, alcuni dei quali riterrebbero che il cambiamento climatico non sia attribuibile alle attività di origine antropica o che, pur essendolo, non sia poi così pericoloso. Quello che, però, ci restituiscono i dati è uno scenario ben diverso da quello che i negazionisti climatici vorrebbero far passare per veritiero. Infatti, come dimostrato da uno studio condotto dalla Cornell University, che ha preso in esame la letteratura scientifica esistente in materia e pubblicata dal 2012 al novembre 2020, il consenso sulla questione climatica raggruppa oggi il 99,9% dei climatologi mondiali.

A questo punto, sorge allora spontaneo domandarsi cosa si colloca alla base di quello che è stato definito “consensus gap”. Cosa, in altri termini, possa spiegare la discrepanza tra la situazione di unanimità restituita da quel 99,9% e la convinzione – diametralmente opposta – dilagante negli ambienti negazionisti e non sulla mancanza di coesione tra i membri della comunità scientifica. 

Il ruolo dell’informazione

Il problema, almeno in parte, si riconduce alla qualità delle informazioni che circolano in materia di cambiamento climatico. Infatti, se una parte della (dis)informazione è diretta conseguenza dell’approssimazione e della negligenza con cui improvvisati esperti di crisi climatica diffondono notizie non verificate e ascientifiche (perché in fondo, si sa, “il clima è sempre cambiato”), un’altra significativa parte di quella cattiva informazione risponde, invece, a ben precise logiche economiche, politiche e ideologiche. Già nel secolo scorso numerose compagnie petrolifere e industrie del settore fossile come la Exxon Mobil cominciarono a condurre autonomamente delle ricerche per indagare il legame tra combustibili fossili e aumento di Co2 in atmosfera.

Ricerche che, confermando l’esistenza di tale legame, non solo furono rese inaccessibili al pubblico, ma furono seguite da vere e proprie campagne di disinformazione e greenwashing, realizzate proprio allo scopo di occultare le evidenze ottenute. A volerle citare tutte non basterebbe ovviamente un unico articolo ma, come ricordato da Fabio Deotto, uno degli episodi più clamorosi in tal senso si verificò nel 1998, quando il Global Warming Petiton Project raccolse le firme di 31 mila scienziati che sostenevano che l’attività umana non stesse compromettendo il sistema climatico terrestre. Tuttavia, a una più attenta lettura dell’elenco in questione apparve chiaro come – in realtà – molte di quelle firme non appartenevano a membri della comunità scientifica. Alcune di esse, a dirla tutta, non appartenevano nemmeno a persone reali. Di quelle firme, poi, meno dello 0,1% apparteneva a scienziati climatici. Una circostanza, quest’ultima, che ci deve far riflettere, essendo esemplificativa di un’altra importante verità: chi, pur essendo membro della comunità scientifica, nega la posizione mainstream in materia di cambiamento climatico, lo fa esercitando una professione che nulla ha a che vedere con la climatologia.

I bias cognitivi

Oltre al ruolo svolto dall’informazione, però, anche le dinamiche cognitive hanno un peso specifico nel plasmare l’immaginario di riferimento dei negazionisti climatici. La presenza di bias cognitivi, infatti, fa sì che il cambiamento climatico non venga percepito come una minaccia concreta e imminente, ma piuttosto come un pericolo potenziale, ancora lontano nel tempo e nello spazio. E anche quando – nella peggiore delle ipotesi – i tempi della catastrofe climatica dovessero ridimensionarsi, a essere colpiti dai suoi effetti sarebbero i luoghi più remoti del Pianeta.

O almeno questo è ciò che si tende a pensare. Talvolta, anche inconsciamente a sperare. Tutt’altro che di rado, infatti, anche chi non appartiene alla setta dei negazionisti climatici finisce per comportarsi in modo analogo a chi nega l’origine antropica del climate change per evitare di dover immediatamente abbandonare uno stile di vita che si fa ogni giorno meno sostenibile. Ma se, pur non negando l’esistenza del problema, non ci si comincia a comportare in modo adeguato per garantirne la risoluzione, ci si potrà davvero considerare differenti rispetto ai negazionisti del clima?

Gli attivisti climatici

In linea teorica, probabilmente, la risposta è sì. Ma poiché la crisi climatica si risolve con la pratica dei fatti, allora potremmo restare delusi. A rendere d’obbligo il condizionale, per fortuna, ci pensa l’attivismo non violento di chi protesta per la tutela del clima e dell’ambiente. Saranno, infatti, le zuppe versate contro i quadri (protetti dalle teche), le facciate dei palazzi imbrattate (con vernice lavabile) e i blocchi alla circolazione (praticati in modo pacifico) a scuotere le nostre coscienze, a favorire un dibattito serio e informato sulla necessità di mobilitare rapidamente nuove e più efficaci soluzioni per arginare la crisi climatica, a indurci a ripensare il modo in cui siamo abituati a vivere.   

Saranno, dunque, gli attivisti di Ultima Generazione e di altri movimenti ambientalisti a salvarci la pelle – e anche la coscienza – perché di fronte all’inasprimento delle leggi proseguono con coraggio una battaglia che ci riguarda tutte e tutti. Quella battaglia che solo quando sarà vinta ci permetterà di dire che no, noi non siamo stati come i negazionisti climatici.       

Virgilia De Cicco

Ecofemminista. Autocritica, tanto. Autoironica, di più. Mi piace leggere, ma non ho un genere preferito. Spazio dall'etichetta dello Svelto a Murakami, passando per S.J. Gould. Mi sto appassionando all'ecologia politica e, a quanto pare, alla scrittura. Non ho un buon senso dell'orientamento, ma mi piace pensare che "se impari la strada a memoria di certo non trovi granché. Se invece smarrisci la rotta il mondo è lì tutto per te".

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