Che ci faceva Emmanuel Macron il 2 luglio scorso a Bamako, capitale maliana, in compagnia dei presidenti di Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger e Ciad? Il neopresidente francese si è recato in Africa per assistere alla riunione straordinaria del G5 Sahel, l’unione di questi cinque paesi creata nel 2014 con l’obiettivo di monitorare la situazione della regione subsahariana, coordinando le forze politiche e militari al fine di fronteggiare la minaccia terroristica jihadista.

L’incontro di Macron di domenica scorsa è stato deciso proprio all’indomani dell’attacco al Campement Kangaba, complesso turistico maliano assalito da un gruppo di uomini armati lo scorso 18 giugno. Da qui la necessità di intensificare la risposta militare, con la creazione di un reparto speciale, chiamato “Force Sahel”, che prevede un dispiegamento di forze pari a circa 10mila soldati dei paesi del G5 Sahel, impegnati nella lotta a un nemico comune, l’Aqmi, Al Qaeda nel Maghreb Islamico.

La presenza di Macron è servita, fra le altre cose, a dimostrare l’appoggio della Francia alla creazione di questa nuova forza militare, sulla quale sia gli Stati Uniti che la Gran Bretagna avevano espresso alcune riserve, date dal suo costo complessivo, di cui l’Unione Europa sarà chiamata a sostenere almeno il 50 per cento.

Non sono sufficienti, difatti, i 50 milioni di euro stanziati dai membri del G5 Sahel, a cui Macron ha promesso di aggiungere materiale militare e di intellingence per un valore di circa 10 milioni di euro.

Le spese di mantenimento della Force Sahel, tuttavia, hanno un valore ben più consistente, tale per cui, nei prossimi mesi, sarà necessario reperire nuovi finanziatori, tanto fra i membri dell’Onu quanto fra i membri dell’UE.

A prescindere dalle questioni contabili di Macron e soci – che rimangono comunque di estrema importanza – è interessante chiedersi se la strategia militare del G5 Sahel sia, o meno, la soluzione corretta per affrontare efficacemente la questione jihadista.

La risposta può essere affermativa per tutta una serie di motivi, il primo dei quali risiede nei benefici futuri che potrebbero scaturire da un’azione di contrasto ai jihadisti della regione, il cui numero potrebbe aumentare di qui a poco, soprattutto in caso di vittoria della coalizione internazionale in Iraq e Siria, che costringerebbe lo Stato Islamico a cercare altre strade per colpire l’Occidente.

Siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma sta di fatto che la regione sub-sahariana è quella più a rischio di tutte, e dunque più bisognosa di alleanze strategiche e aiuti militari.

In questo senso, è condivisibile anche l’impostazione di Macron, tesa a irrobustire le alleanze fra i paesi della regione, nell’ottica di un fronte comune contro i jihadisti: un Sahel più unito e compatto, infatti, rimane l’arma più potente contro l’avanzare dello Stato Islamico e dei suoi affiliati.

Dalla prospettiva comunitaria, l’operazione ha ottime chance di successo, sia militare, per i motivi già esposti, che diplomatico, perché non ha avuto soltanto l’effetto di migliorare i rapporti con il vicino africano – che oggi può legittimamente sentirsi più tutelato e protetto – ma anche e soprattutto quello di compattare l’Europa in materia di politica estera.

Sul punto, a ben vedere, si tratta di una delle rare volte in cui i paesi membri dell’UE si sono trovati d’accordo su una linea di difesa comune contro la minaccia terrorista, una presa di coscienza – e una conseguente azione congiunta – indispensabile per la sicurezza interna e globale.

Carlo Rombolà

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