Con i ritorni di “Twin Peaks” e “Star Wars”, si potrebbe dire che il 2017 sia stato l’anno della nostalgia? Oppure, pensando a film come “Atomic Blonde” e “Wonder Woman”, alla conquista dell’Orso d’oro da parte della regista Ildikó Enyedi e a belle realtà editoriali nostrane come Black Coffee, si può affermare che, per quanto riguarda la cultura, il 2017 sia stato l’anno delle donne?

Ad inizio e fine anno sulla rete e sulla carta si affollano articoli che tentano di tracciare un bilancio, tirare le somme e rilanciare, fare scommesse sul futuro. Per quanto possano apparire frivole simili discussioni, sono un’ottima occasione di vedere cosa ci si è persi dell’anno passato, e nel caso recuperare (lo è stato anche per chi scrive. Proprio facendo qualche ricerca per l’articolo che state leggendo sono venuto a conoscenza del film di Enyedi). Una chance anche per valutare cosa sarebbe invece meglio dimenticare, e da dove si possa ripartire.

L’anno della nostalgia?

Non è stato forse un caso che l’annata si sia aperta con il trionfo di “La La Land” agli Oscar, un film che, secondo un articolo di David Sims per The Atlantic uscito un anno fa, è un’opera sui limiti della nostalgia. Un sentimento non tra i più apprezzati, forse, ma certamente comprensibile dopo un anno, il 2016, che si era portato via, tra gli altri, David Bowie, Leonard Cohen e Keith Emerson.

Così, quasi per disegno divino, il 2017 ha deciso di rendere qualcosa, di riportare qualcosa indietro dal passato. È stata un’annata di grandi ritorni. Nel cinema, “Twin Peaks” di David Lynch ha fatto pensare a tutti di essere tornati agli anni novanta, mentre la colonna sonora di “Atomic Blonde” ci ha riportati agli anni ottanta. Ma il primo ritorno, ad aprile, è stato in campo artistico ed è stato quello di Damien Hirst.

Hirst, dopo aver provato ad esplorare il figurativo, rilevato il proprio fallimento, ha fatto marcia indietro verso l’amato ambiente marino con il quale aveva sorpreso il mondo più di vent’anni prima. Certo, ora il potere economico e il mecenate Pinault gli consentono di occupare molto più spazio, di erigere statue colossali, di moltiplicare i coralli e le falsificazioni. Può fare un po’ ridere che un artista apparentemente scandaloso come lui sia oggetto di ‘nostalgie’, ma forse Hirst è nato proprio come atto nostalgico: nostalgia del maledettismo di Bacon (che in Bacon era scelta obbligata e non posa) e dell’irriverenza dadaista. Una nostalgia dada dalle prime opere degli anni novanta, arrivata al culmine nel 2017, con una mostra autoreferenziale, autonostalgica.

Verso la fine del 2016 (era settembre), Cattelan aveva inaugurato “America”, un’anticipazione, in fondo, su tutta la mostra di Hirst: un wc, come Duchamp, ma un wc d’oro, come gli investitori si possono permettere. Insomma, una nostalgia lucrativa, niente d’avanguardistico, nessun vero senso del rischio. Una nostalgia per l’avanguardia, questo sì. L’assurdità di una nostalgia per il dada, una dadanostalgia. Ah, quando il cinema era ancora anemico e la poesia faceva Zang Tumb Tumb, non quella robaccia cacofonica d’oggidì.

Per quanto riguarda la letteratura, a giugno è stato pubblicato uno scritto di Tolkien, Beren e Lúthien, l’ennesima reliquia riesumata da qualche scatolone e gettata in pasto ai fan.

L’anno delle donne?

Il 2017, nel mondo dell’industria cinematografica, rischia di essere ricordato soprattutto per lo scandalo Weinstein (qualcosa che veramente sarà immune da ogni possibile nostalgia). Ogni volta che, in futuro, decideremo di guardare Pulp Fiction e vedremo il suo nome nei titoli d’apertura non potremo evitare di accostare quella sequenza di sillabe a qualcosa di sgradevole.

Lo scandalo Weinstein, in sé, non è affatto un male. Il male è avvenuto anni fa, e quello a cui nel 2017 abbiamo assistito è stato anzi un buon segno: il momento in cui molte persone hanno deciso di far sentire la propria voce. A proposito di voci, diverse voci femminili del panorama letterario angloamericano hanno trovato posto nella casa editrice Black Coffee, nata proprio l’anno appena conclusosi. L’anno di  Black Coffee si è aperto con “Il corpo che vuoi” dell’esordiente Alexandra Kleeman e si è concluso con l’esordio italiano della ormai classica (negli Stati Uniti) Joy Williams, con il suo “L’ospite d’onore”.

Tornando al cinema, non ci sono stati solo scandali durante i dodici mesi passati. Nel 2017 sono usciti anche “Wonder Woman” (qui la recensione a cura di Enrico Ciccarelli) e “Atomica bionda”. Film molto diversi, anche se entrambi tratti dal mondo dei fumetti, hanno donne forti e indipendenti come protagoniste.

In Europa, a vincere l’Orso d’oro è stato un film diretto da una donna: “Corpo e anima” dell’ungherese Ildikó Enyedi. Si tratta di uno di quei film raffinati che probabilmente non faranno molto chiasso (un po’ come “The Killing of a Sacred Deer” del greco Yorgos Lanthimos, anch’esso uscito quest’anno e vincitore del premio per la miglior sceneggiatura a Cannes), a meno che la sua candidatura agli Oscar non superi ulteriori selezioni e si trasformi in un successo.

Cosa portare nel 2018?

Si può forse partire da ciò che è rimasto fuori dal centro del nostro discorso, ovvero l’opera della Enyedi, “Corpo e anima” (anche se, essendo la regista una donna, potrebbe comunque essere incluso nell’annata delle donne). Proprio il film della Enyedi può fare da ponte: vincitore a Berlino l’anno scorso, uscirà il 4 gennaio nelle sale italiane. È l’occasione per ripartire con freschezza, con un’opera diversa dalla maggior parte che i nostri occhi hanno dovuto sorbirsi per tutto l’anno passato.

Il lettore, specie quello appassionato di letteratura angloamericana, vorrà tenere d’occhio le prossime uscite Black Coffee. Fino ad oggi nel loro catalogo sono presenti Alexandra Kleeman, Bonnie Nazdam, Mary Miller, Amy Fusselman e Joy Williams. Non hanno ancora sbagliato un colpo.

Per quanto riguarda ruoli di primo piano per donne fuori da ogni stereotipo, l’unica previsione sensata da fare sembra questa: continueranno ad aumentare, specie se le donne riusciranno ad occupare più posti che contano all’interno dell’industria cinematografica (si pensi a Charlize Theron, coproduttrice di “Atomic Blonde”) o a creare questi posti ex novo (il caso di Reese Witherspoon, che attraverso la sua Pacific Standard ha prodotto qualche anno fa “Gone Girl”) e a garantire che soggetti e sceneggiature vengano prodotti o meno in base al loro potenziale commerciale e/o valore artistico senza discriminazioni o preconcetti sessisti su quali ruoli siano credibili e appetibili.

Luca Ventura

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